Mi siedo in treno e mi addormento, il viaggio è lungo, posso star tranquillo che la mia stazione non passa senza che io me ne accorga. Vado a Trieste, e ci vado senza una ragione differente dalla bellezza, dal desiderio di rivedere quasi d'inverno quella piazza chiusa su tre lati che a un certo punto, sul fronte spalancato, diventa molo e poi, con smania d'infinito, mare. Quando viene notte il treno si ferma in mezzo alla campagna e lo stridio dei freni mi sveglia; il casellante, lì in piedi sulla banchina, tiene in mano una lanterna, come un secolo fa. Sono mezzo intorpidito ma lo vedo, il segnale che fa al macchinista dondolando la luce: possiamo ripartire. Lo scompartimento è vuoto, sono scesi tutti in quella terra di nessuno che non aveva neanche il cartello arruzzinito col nome sopra: chissà che diavolo vanno a fare tutti là in mezzo al nulla, nella desolazione. Dopo un paio di minuti che siamo in corsa, il dondolio mi rapisce di nuovo: chiudo gli occhi, la bocca mi si apre come a un deficiente al cospetto d'una corbelleria; è allora che entra nello scompartimento una ragazza magrolina, sui trentacinque, vestita comoda, i capelli chiari tirati alla nuca, gli occhiali dalla montatura leggera, le Salomon ai piedi. Tra tutti i posti liberi che ci stanno, si siede davanti a me: io, che mi dà noia incontrare perfino chi conosco, la mando all'inferno sottovoce, con la speranza che precipiti senza pietà fino all'ultima delle malebolge. Dieci a uno mi sta studiando, col sorriso di chi la sa lunga. Fingo di dormire ma è come se lo vedessi, che mi guarda, è come se i suoi occhi trapassassero i miei, abbassati. Finché, fatti che abbiamo altri due chilometri di ferrovia, mi rivolge la parola: "Eccomi qua, finalmente". M'illudo che stia parlando al cellulare, non le do confidenza. "Eccomi qua", insiste, e mi tocca il ginocchio. "Non mi hai cercato con tutte le forze?" Mi costringe ad aprire gli occhi, a guardarla in faccia. "Ci conosciamo?", gli domando e lei "Sono appena venuta al mondo, e quindi no, non ci siamo mai incontrati". Mi ci mancava una matta in un treno vuoto. E adesso dove me ne scappo? "Tutta la vita che mi cerchi, non è tutta la vita?" - insiste. "E che mi preghi, mi maledici, mi paragoni a certi animali innocenti. Prova a negarlo!" Quest'ultima cosa la dice però con benevolenza, quasi scherzando. "Così ho deciso che era il momento di crearmi - e non scandalizzarti se ho preferito nascere femmina - per provare a rispondere a qualche tua perplessità. Il dolore, vogliamo cominciare dal senso del dolore?" Ora la fisso stranito, vorrei scappare ma sono inchiodato al sedile. "D'altro canto, se uno è onnipotente, pure se fino a oggi non esisteva può anche scegliere di nascere come e quando gli va, non credi?" e con quel punto interrogativo mi trafigge come nessuna donna al mondo è mai riuscita a fare.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...
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