C'era un nuovo questuante stamattina in città, un uomo alto più o meno come me, dai sessant'anni ben portati, i vestiti ben cuciti addosso, tanto che non sembrava glieli avessero regalati come di solito si fa coi questuanti, il berretto di lana e la mano tesa a ogni rada anima che passava. Stava seduto su una panca di pietra all'inizio della Ztl, non aveva cappelli per terra, né custodie di violini, non suonava, non cantava, non farneticava. Sfilavano, quei pochi che sfilavano, tutti torvi, scuri in volto, lo sguardo agli schermi degli smartphone. Nessuno salutava nessuno, nessuno si fermava a farsi gli auguri di Natale, anche se manca ancora tanto. Quando qualcuno con la coda dell'occhio lo notava, allora rallentava e si avvicinava per dargli una moneta; lui però ritraeva la mano, una o due volte ha detto No, no, non ho bisogno di soldi, e allora quelli che s'erano fermati andavano via offesi, disorientati. Io stavo dietro all'edicola, a far finta di decidere se comprare o no le figurine dei calciatori - quand'era piccola con mia figlia facevamo l'album, io le attaccavo storte e lei dritte - e intanto rubavo di soppiatto i suoi gesti, e dietro ai gesti tentavo di capire le intenzioni. Dopo qualche minuto è uscito il giornalaio, tutto stranito pure lui, e mi ha chiesto se ero lì a specchiarmi o a controllare se i giornali li aveva messi paralleli, perché, in caso contrario avrebbe gradito che lo avvertissi, che avrebbe corretto l'asse di quelli sbilenchi. Mi sono allontanato, neanche gli ho risposto, e ho immaginato che lo spigolo di una casa in ristrutturazione, senza operai tra i piedi, potesse nascondermi ancora meglio. L'uomo che mi assomigliava non aveva fatto molti progressi: stessa postura, stessa indignazione quando un incauto passante gli allungava una moneta. A un ragazzo gliel'ha perfino tirata dietro e quello s'è messo a strillare e gli si è fatto sotto, come volesse menarlo, poi li hanno divisi e il giovanotto, villaneggiando, ha ripreso la strada sua. Chi li ha separati è il garzone del pizzicagnolo, lo conosco da quando è nato, un ventenne grosso e mite che studia filosofia e intanto che indaga Schopenhauer affetta il prosciutto di Norcia. Pure lui gli ha chiesto che diavolo volesse, dal momento che non prendeva danaro manco a pagarlo: mi sono avvicinato fingendo di cercare una via con Google Maps e intanto ho orecchiato. Il questuante con una faccia da impunito, mica gli ha risposto. O meglio, sì, ma è come se non lo avesse fatto. Ha detto E che devo spiegarvelo io? Se non lo capite da soli, posso farci un bel niente, e si è rimesso a sedere su quella panca di pietra, il berretto di nuovo calato in fronte e la mano tesa. A quel punto mi sono arreso - che altro potevo fare? - ho rivolto un cenno al garzone e - rientrati in negozio - mi son fatto tagliare in tutta cordialità due etti di salame rosa, prelibato e innocente.
Il primo Natale dopo la grande tenebra è una stagione vicina eppure antica: undici anni or sono. Là dentro decisi che non me ne importava più delle mie canzoni, dei libri che mi avevano spaccato a metà, e che mi sarei abbrutito, se ne fossi stato capace. Gli altri, intorno, continuavano a fare le cose con noncuranza, come se Alessandra fosse uscita a comprare candele e centrotavola e tutti sapevano che sarebbe arrivata in tempo per il cenone. Scartai il regalo che mi fece qualcuno che non ricordo e dentro c'era un libro di viaggi nello spazio: un suggerimento, avrei dovuto cercare mia moglie dappertutto, nell'universo, tranne che su questo pianeta. Poi venne il primo gennaio, poi il mio compleanno, poi marzo - che ho sempre amato, per via della sua schizofrenia - e poi aprile, mese che ci trasformava per due giorni in amanti affamati, al mare, ed era quando non avevamo altri legami al mondo che il nostro. Ci andai lo stesso, al mare, con mia figlia, e commisi l'errore di ra
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