C'era un uomo per la strada, stamattina, che non faceva niente per nascondere la sua irrequietezza. Vagolava tra le case, suonava citofoni, interrogava chi rispondeva. Pure, fermava la gente per la strada - una ragazza prosperosa gli ha dato corda e quello non la finiva più di farle far tardi, ovunque stesse andando. Dicono sia matto, chi lo conosce e chi non lo conosce, perché giurano, questi ultimi, che non ci vuole una scienza per accorgersene. Un ambulante che vende biancheria intima mi ha detto che è pazzia di famiglia, che suo padre era strano e suo nonno è morto in manicomio - quando ancora esistevano. "E anche il fratello non è che stia tanto bene; è sposato, sì, ci ha pure due figli, il fratello, ma è sbalestrato, strappa i manifesti funebri dai muri e se li porta a casa". "Cioè li colleziona?" ho chiesto incautamente. "Io che ci fa non lo so - m'ha risposto stizzito - ma c'è un sacco di padri di famiglia che l'han visto compiere quel sacrilegio". Così, curioso come una scimmia, sono rimasto nei paraggi, e dopo la ragazza quel tipo s'è attaccato a un muratore, a un'infermiera stracca del turno di notte, a un giocatore di ramino spuntato da una bisca e a un noto faccendiere. A tutti ripeteva la stessa domanda, perché a un certo punto l'ho sentita, ero vicino: "Ma tu ne hai di più? Dì, ne hai di più?" e quelli lo scansavano, l'infermiera perfino spaventata, gli altri, gli uomini, presumendo d'esser sani di mente, e perciò in salvo, non sommersi, non ancora, da vite inspiegabili. Alla fine mi ha visto: io non ho fatto nulla per evitarlo, volevo che facesse giocare anche me, sentirmi parte di tanta eccentricità. "Tu ne hai di più, ammettilo!" ha urlato, guardandomi fisso, e impalcando un sorriso bambino. "Sì, sì, ne ho quante ne vuoi - ho risposto giulivo, - ne ho così tante che non puoi immaginare". Sembravamo due sciroccati nel cortile di un ospedale psichiatrico. "E allora mettile, mettile! E che dio ti benedica!" e a furia di punti esclamativi se n'è andato via, su per un vicolo agro, stortignaccolo nel passo, lasciandomi là, in mezzo alla strada, a ragionare sulla schizofrenia dei luoghi comuni.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...
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