C'era un uomo per la strada, stamattina, che non faceva niente per nascondere la sua irrequietezza. Vagolava tra le case, suonava citofoni, interrogava chi rispondeva. Pure, fermava la gente per la strada - una ragazza prosperosa gli ha dato corda e quello non la finiva più di farle far tardi, ovunque stesse andando. Dicono sia matto, chi lo conosce e chi non lo conosce, perché giurano, questi ultimi, che non ci vuole una scienza per accorgersene. Un ambulante che vende biancheria intima mi ha detto che è pazzia di famiglia, che suo padre era strano e suo nonno è morto in manicomio - quando ancora esistevano. "E anche il fratello non è che stia tanto bene; è sposato, sì, ci ha pure due figli, il fratello, ma è sbalestrato, strappa i manifesti funebri dai muri e se li porta a casa". "Cioè li colleziona?" ho chiesto incautamente. "Io che ci fa non lo so - m'ha risposto stizzito - ma c'è un sacco di padri di famiglia che l'han visto compiere quel sacrilegio". Così, curioso come una scimmia, sono rimasto nei paraggi, e dopo la ragazza quel tipo s'è attaccato a un muratore, a un'infermiera stracca del turno di notte, a un giocatore di ramino spuntato da una bisca e a un noto faccendiere. A tutti ripeteva la stessa domanda, perché a un certo punto l'ho sentita, ero vicino: "Ma tu ne hai di più? Dì, ne hai di più?" e quelli lo scansavano, l'infermiera perfino spaventata, gli altri, gli uomini, presumendo d'esser sani di mente, e perciò in salvo, non sommersi, non ancora, da vite inspiegabili. Alla fine mi ha visto: io non ho fatto nulla per evitarlo, volevo che facesse giocare anche me, sentirmi parte di tanta eccentricità. "Tu ne hai di più, ammettilo!" ha urlato, guardandomi fisso, e impalcando un sorriso bambino. "Sì, sì, ne ho quante ne vuoi - ho risposto giulivo, - ne ho così tante che non puoi immaginare". Sembravamo due sciroccati nel cortile di un ospedale psichiatrico. "E allora mettile, mettile! E che dio ti benedica!" e a furia di punti esclamativi se n'è andato via, su per un vicolo agro, stortignaccolo nel passo, lasciandomi là, in mezzo alla strada, a ragionare sulla schizofrenia dei luoghi comuni.
Il primo Natale dopo la grande tenebra è una stagione vicina eppure antica: undici anni or sono. Là dentro decisi che non me ne importava più delle mie canzoni, dei libri che mi avevano spaccato a metà, e che mi sarei abbrutito, se ne fossi stato capace. Gli altri, intorno, continuavano a fare le cose con noncuranza, come se Alessandra fosse uscita a comprare candele e centrotavola e tutti sapevano che sarebbe arrivata in tempo per il cenone. Scartai il regalo che mi fece qualcuno che non ricordo e dentro c'era un libro di viaggi nello spazio: un suggerimento, avrei dovuto cercare mia moglie dappertutto, nell'universo, tranne che su questo pianeta. Poi venne il primo gennaio, poi il mio compleanno, poi marzo - che ho sempre amato, per via della sua schizofrenia - e poi aprile, mese che ci trasformava per due giorni in amanti affamati, al mare, ed era quando non avevamo altri legami al mondo che il nostro. Ci andai lo stesso, al mare, con mia figlia, e commisi l'errore di ra
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