Ogni viaggio che faccio, ogni irrequietezza, finisce per portarmi al mare, dove tutto si riassume, tutto si placa: i tumulti, le ambizioni, la paura che il tempo non basti ai desideri. Una volta laggiù, al confine della terra, la sera si mangia i ricordi ed è come se ciò che ha velleità di memoria fosse accaduto solo dopo le sei di pomeriggio, a ottobre, sulla spiaggia di Tarquinia. In quella disdetta invidio agli animali l'abilità di non sapersi evolvere, fortuna da cui discende l'incapacità di leggere la vita, farne poesia, raccontarla con tenerezza. A noi umani invece, animali eccentrici, tocca in sorte la rielaborazione, e tocca assegnare simboli e significati a eventi che non ne hanno, che sono probabilmente fortuiti, ma che per natura trasformiamo in mito. Quando il sole mi cala alle spalle, si riflette sullo specchio retrovisore e mi fa stringere gli occhi, e ho già superato Tuscania, là dove continua la campagna etrusca fatta di colline a forma di seni come se tante gigantesse stessero sdraiate ad abbronzarsi, già penso a cosa riporterò a casa da quella scorribanda, a cosa scriverò, già m'intenerisco e mi fingo scrittore. Sono scene da un matrimonio pure le mie, come quelle di Bergman: ho sposato la mia indole nostalgica e non riesco a starle lontano. Sullo stesso tratto di spiaggia dove vidi piangere mia figlia senza che lei lo desse a intendere, ricordo perché: era passata una donna con un cane senza guinzaglio, gli aveva detto, mentre quello impazziva tra gli schizzi, "Filippo, smettila di giocare, vieni da mamma" e lei - mia figlia - la sua l'aveva persa da un mese; vicino alle villette linde di via dei vascelli, ancora d'autunno, c'era il tanfo dell'immondizia fermentata nei cassonetti, e dall'altra parte della strada l'emporio di una donna grassa, giuliva, che teneva fuori dell'uscio palloni di plastica appesi nella rete; l'albergo dove ci credettero amanti sta un isolato più giù, protetto da un recinto di alberi dalla chioma fatua: i camerieri si davano di gomito, ridacchiavano, e noi glielo lasciammo credere, che eravamo illeciti, perché era divertente. Così è per questo - per tutte queste complicazioni, per tutta la bellezza intravista, per tutte le memorie stipate nelle stagioni, da sconfitto che ha vinto - che avrei voluto nascere gatto.
Il primo Natale dopo la grande tenebra è una stagione vicina eppure antica: undici anni or sono. Là dentro decisi che non me ne importava più delle mie canzoni, dei libri che mi avevano spaccato a metà, e che mi sarei abbrutito, se ne fossi stato capace. Gli altri, intorno, continuavano a fare le cose con noncuranza, come se Alessandra fosse uscita a comprare candele e centrotavola e tutti sapevano che sarebbe arrivata in tempo per il cenone. Scartai il regalo che mi fece qualcuno che non ricordo e dentro c'era un libro di viaggi nello spazio: un suggerimento, avrei dovuto cercare mia moglie dappertutto, nell'universo, tranne che su questo pianeta. Poi venne il primo gennaio, poi il mio compleanno, poi marzo - che ho sempre amato, per via della sua schizofrenia - e poi aprile, mese che ci trasformava per due giorni in amanti affamati, al mare, ed era quando non avevamo altri legami al mondo che il nostro. Ci andai lo stesso, al mare, con mia figlia, e commisi l'errore di ra
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