Ogni viaggio che faccio, ogni irrequietezza, finisce per portarmi al mare, dove tutto si riassume, tutto si placa: i tumulti, le ambizioni, la paura che il tempo non basti ai desideri. Una volta laggiù, al confine della terra, la sera si mangia i ricordi ed è come se ciò che ha velleità di memoria fosse accaduto solo dopo le sei di pomeriggio, a ottobre, sulla spiaggia di Tarquinia. In quella disdetta invidio agli animali l'abilità di non sapersi evolvere, fortuna da cui discende l'incapacità di leggere la vita, farne poesia, raccontarla con tenerezza. A noi umani invece, animali eccentrici, tocca in sorte la rielaborazione, e tocca assegnare simboli e significati a eventi che non ne hanno, che sono probabilmente fortuiti, ma che per natura trasformiamo in mito. Quando il sole mi cala alle spalle, si riflette sullo specchio retrovisore e mi fa stringere gli occhi, e ho già superato Tuscania, là dove continua la campagna etrusca fatta di colline a forma di seni come se tante gigantesse stessero sdraiate ad abbronzarsi, già penso a cosa riporterò a casa da quella scorribanda, a cosa scriverò, già m'intenerisco e mi fingo scrittore. Sono scene da un matrimonio pure le mie, come quelle di Bergman: ho sposato la mia indole nostalgica e non riesco a starle lontano. Sullo stesso tratto di spiaggia dove vidi piangere mia figlia senza che lei lo desse a intendere, ricordo perché: era passata una donna con un cane senza guinzaglio, gli aveva detto, mentre quello impazziva tra gli schizzi, "Filippo, smettila di giocare, vieni da mamma" e lei - mia figlia - la sua l'aveva persa da un mese; vicino alle villette linde di via dei vascelli, ancora d'autunno, c'era il tanfo dell'immondizia fermentata nei cassonetti, e dall'altra parte della strada l'emporio di una donna grassa, giuliva, che teneva fuori dell'uscio palloni di plastica appesi nella rete; l'albergo dove ci credettero amanti sta un isolato più giù, protetto da un recinto di alberi dalla chioma fatua: i camerieri si davano di gomito, ridacchiavano, e noi glielo lasciammo credere, che eravamo illeciti, perché era divertente. Così è per questo - per tutte queste complicazioni, per tutta la bellezza intravista, per tutte le memorie stipate nelle stagioni, da sconfitto che ha vinto - che avrei voluto nascere gatto.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...
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