Le case infestate esistono, eccome, ma non nel senso che crediamo tutti. O meglio, forse anche in quel senso lì, gotico, novembrino: mi piacerebbe. Mi piacerebbe star dentro a un romanzo di Henry James, esser risucchiato da una bocca che s'apre tra le pagine e dover fare i conti con la ragazza fantasma che appare e scompare sul lago. Ma oggi non vorrei parlare di spaventi, no. Oggi vorrei parlare di approvvigionamenti e vettovaglie. La cui pianificazione, mezzo secolo fa, cominciava adesso, all'inizio dell'autunno. Legna a ciocchi, candele, tovaglie rosse e roba da mangiare a volontà. Quella stagione era un'anteprima: l'anteprima della festa. Ora, lo so che infestare non ha un'etimologia allegra - infestus significa qualcosa come nocivo, pericoloso - ma a me in questo caso piace bellamente ignorare il prefisso e salvare solo l'anima della parola - festus - che naturalmente significa gioioso, felice. Le case infestate dunque, in barba alla grammatica, per me sono quelle dove si architetta la festa, dove si prepara l'ambiente per il lungo inverno, dove si accendono luci intermittenti per vedere che giochi e che macchie di colore proiettano sulle pareti. Immagino che nessuno al mondo oggi prepari la festa con tre mesi di anticipo, pianifichi i menù fino a febbraio, aggiusti le zampe ai tavoli perché tutti gli invitati siano pari e comodi. Da quel momento, da quando in casa mia qualcuno pronunciava la parola Natale e fuori l'aria era ancora affocante, una piccola magia d'attesa, di impazienza contenta, traversava le stanze. Erano tutti giovani, erano sani fino al midollo, erano tutti belli, quelli che c'erano. Perfino quel ragazzo con la pelle macchiata di rosso, come ci fosse stato versato del vino. Perfino quella donna vestita di nero che anni dopo si uccise - dissero per depressione. Guai a chi mi tocca il Natale, allora. Lo dico il sedici di settembre, quest'anno, e sono già in ritardo: guai a chi mi tocca i ricordi. Guai a chi mette in dubbio che quello fosse il migliore dei mondi possibili e che fuori di via della Pigna - oltre lo scoppìo del fuoco, le risate, le voci sovrapposte, i numeri estratti, la fiamma che arrossava i volti, l'appetito formidabile di Clara, e perfino oltre la notte che faceva meno paura ad aspettarla assieme - ci fosse qualcosa di meglio, qualcosa per cui valesse la pena diventare così grandi e solitari.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...
Sei fantastico Francesco.Amo le tue descrizioni.I tuoi pensieri , ricordi e riflessioni.Le amo perché pure io amo ricordare e mi immedesimo nei tuoi racconti.Bravissimo.Risulto anonima ma sono Rosella Tarquini
RispondiEliminaGrazie Rossella, ciao
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