Ogni volta che vado da un medico, ne esco con una diagnosi, una cura e un'impressione. Delle tre, quella che più mi sta a cuore è l'ultima, perché nei giorni a venire ci costruisco sopra il desiderio di tornarci, per un secondo consulto, oppure la repulsione a tenermene alla larga per sempre. Capita in effetti da un paio di anni a questa parte che faccia dentro e fuori con gli ambulatori come Pietro Gambadilegno con le galere, e così il gioco di intuire la competenza dei dottori - con tutta l'umiltà del paziente che sono - è diventato una sorta di necessità. Ho frequentato cardiologi, dentisti, otorini, dermatologi, ecografisti: c'è chi è un campione e chi una mezza sega - e scusate la poca nobiltà del narratore, per una volta. Ho la presunzione - dopo tanta pratica - di annusare al volo l'aria che tira: da una domanda diversa dal canone, da un'attenzione più minuziosa, dal tempo che mi si dedica, dall'autorevolezza che mi trasmette chi ho davanti. Già, l'autorevolezza. A pensarci bene è un po' la stessa dote che i genitori pretendono da me quando insegno; che i lettori cercano in me quando - affascinato dal mondo - canto e scrivo; che gli ascoltatori - scansando le radio fatue - si aspettano dalla mia voce. La mia dipendenza senile dai medici è ben strana, tuttavia, e spero sia un fuoco passeggero. Di cosa vado in cerca, inseguendoli e prestandomi ai loro diabolici macchinari a forma di tubo, tunnel, sedia di tortura? Boh, va' a saperlo. Probabilmente non cerco davvero vitamine, antibiotici, spray nasali, gocce per le orecchie, cortisone da inalare. No. Forse cerco tempo. Vale a dire un altro pezzo di vita, qualcuno che allunghi il filo che ho in mano e mi dica Certo che di stagioni ne avrai ancora tante, tranquillo: mica crederai che è tutto qui? E mi prescriva, così dicendo, altri quarant'anni di buona salute, e ci metta la firma a garanzia. Perché la vita mi piace così tanto - i suoi sberleffi, gli agguati, le guarigioni insperate, le euforie che si spalancano a tradimento - che ai dottori chiedo solo di aiutarmi a tenere a bada la mia ipocondria.
Il primo Natale dopo la grande tenebra è una stagione vicina eppure antica: undici anni or sono. Là dentro decisi che non me ne importava più delle mie canzoni, dei libri che mi avevano spaccato a metà, e che mi sarei abbrutito, se ne fossi stato capace. Gli altri, intorno, continuavano a fare le cose con noncuranza, come se Alessandra fosse uscita a comprare candele e centrotavola e tutti sapevano che sarebbe arrivata in tempo per il cenone. Scartai il regalo che mi fece qualcuno che non ricordo e dentro c'era un libro di viaggi nello spazio: un suggerimento, avrei dovuto cercare mia moglie dappertutto, nell'universo, tranne che su questo pianeta. Poi venne il primo gennaio, poi il mio compleanno, poi marzo - che ho sempre amato, per via della sua schizofrenia - e poi aprile, mese che ci trasformava per due giorni in amanti affamati, al mare, ed era quando non avevamo altri legami al mondo che il nostro. Ci andai lo stesso, al mare, con mia figlia, e commisi l'errore di ra
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