Un amico giorni fa mi suggeriva un'idea: che non sarebbe male cambiare nome alle cose, a cominciare da quelle estreme, che potrebbero ribattezzarsi una col nome dell'altra, per vedere se così facendo gli uomini ne possano trarre un qualche giovamento. Gli ho chiesto di farmi un esempio, eravamo con le gambe penzoloni nel vuoto e il sedere sopra un muretto dell'infanzia, a sfidare le vertigini. Sotto, il salto è di dieci dodici metri, non proprio una bazzecola. Per quello deve aver detto "Pensa se da domani chiamassimo vita la morte e morte la vita. Non credi che si ribalterebbero le prospettive? E che la morte, nominata vita, ci apparirebbe meno spaventosa e la vita, chiamata morte, allertata cioè di continuo della fine, meno fatua?" Immagino volesse dire che i nomi con cui battezziamo la realtà a furia di pronunciarli se ne portano appresso l'anima - nelle lettere, nelle sillabe - e modificano i nostri umori, incoraggiando euforie e paure - che per inciso sono altre due parole che sarebbe fantastico scambiar di posto. Così ho provato a tenergli testa, e per fargli capire che avevo capito gli ho dato corda: "Okay, cominciamo a chiamar vita la morte: potremmo almeno colorarla di un poco d'allegria". A quel punto mi ha guardato dritto in faccia, mezzo incuriosito, mezzo pronto a buttarla in caciara. Da ragazzi lo facevamo di continuo, cominciare un discorso serio per poi tradirlo e sparare stronzate a raffica. Stavolta no, non succede: stiamo invecchiando. Anzi, lui ha rincarato la dose: "Potrebbe farle bene un po' di colore, smunta com'è". Lì gli ho spiato in faccia una mancanza: suo padre, probabilmente. "E comunque la vita - ha proseguito imperterrito - dovremmo chiamarla morte per almeno tre motivi. Primo, perché il termine altrimenti resterebbe senza un concetto cui incollarsi, senza concretezza, e non lo merita. Nessuna parola così letteraria, definitiva, andrebbe dimenticata. Secondo, perché se non chiamassimo morte la vita, continueremmo a chiamarla per l'appunto vita ma avremmo già cominciato a chiamar vita anche la morte, con problemi di comunicazione obiettivamente irrisolvibili. E terzo, perché la vita, definita morte, potrebbe far abbassare le arie, smorzare le smanie di potere, a tutti quelli che credono che la loro sarà infinita, e giustificare con questa follia qualunque abominio". Toccava di nuovo a me, ho tentato di chiudere il cerchio: "La vita, incistata di morte, del suo suono lugubre, diverrebbe quindi più accorta. Una specie di evoluzione etica". "Se ti fa piacere pensarlo, accomodati - ha tagliato corto. - Del resto è la mia stessa speranza. Ma che ne dici se ora andassimo a farci una birra?"
Il primo Natale dopo la grande tenebra è una stagione vicina eppure antica: undici anni or sono. Là dentro decisi che non me ne importava più delle mie canzoni, dei libri che mi avevano spaccato a metà, e che mi sarei abbrutito, se ne fossi stato capace. Gli altri, intorno, continuavano a fare le cose con noncuranza, come se Alessandra fosse uscita a comprare candele e centrotavola e tutti sapevano che sarebbe arrivata in tempo per il cenone. Scartai il regalo che mi fece qualcuno che non ricordo e dentro c'era un libro di viaggi nello spazio: un suggerimento, avrei dovuto cercare mia moglie dappertutto, nell'universo, tranne che su questo pianeta. Poi venne il primo gennaio, poi il mio compleanno, poi marzo - che ho sempre amato, per via della sua schizofrenia - e poi aprile, mese che ci trasformava per due giorni in amanti affamati, al mare, ed era quando non avevamo altri legami al mondo che il nostro. Ci andai lo stesso, al mare, con mia figlia, e commisi l'errore di ra
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