Quando comincia a piovere, e io non devo uscire, è pomeriggio e la mattina ho fatto tutto quel che potevo fare, qualche volta sposto la poltrona davanti alla finestra del soggiorno e in pace con dio e col mondo guardo fuori. I rami degli alberi stanno ritti come parafulmini, sembra che aspettino l'elettricità del temporale; le tortore e i moscardini si rintanano nei tronchi cavi; i giocatori, giù al campo sportivo, fermano l'allenamento e scappano negli spogliatoi. La pioggia cade verticale, buca, fora, sevizia la terra, gocce grosse come lacrime scoppiano sul mio terrazzo, fanno sploc, si rompono in piccoli schizzi furibondi come la poetessa quando si immaginava ape, rimbalzano sui coppi, le tegole, le greche della facciata di fronte, e alla fine scolano via nei tombini. Non metto la musica, in frangenti così, o se la metto è un sottofondo appena percettibile, biascicante, come se uno dei miei cari fantasmi fosse venuto a trovarmi prima che sia notte, per una volta. Mi vengono due o tre desideri, di norma, passato che è qualche minuto, e quando arrivano la quiete si rompe. Son sempre quelli, si ripetono; sono gli istinti che più vorrei soddisfare, alcuni primitivi, altri modellati dai pochi libri che ho letto, dalle insignificanti parole che ho cantato. Il primo ha a che fare con un piatto di pasta ben cucinato, ché io non sono capace. Un piatto di fusilli, pennette, mezze maniche, torciglioni che mantengano la cottura fino a undici minuti, e trattengano tra le scanalature il sugo, come un amore con gelosia, e quando li metti in tavola profumino di basilico l'intera cucina. Il secondo con le voci per le stanze, il rumore della doccia di chi s'è alzato tardi, il campanello che suona se qualcuno ha scordato le chiavi, un sorriso, un bacio, un piccolo alterco e una riappacificazione. Il terzo desiderio gioca con tutti gli altri, li riassume, quelli che vengono prima e quelli che vengono dopo: mi pare si chiami famiglia ma è un nome che non pronuncio più da tanto tempo, si è seccato: lui, il termine, e la speranza che lo contiene. Per cui, se capita che quelle tentazioni m'afferrino, lascio che facciano il loro corso, come i raffreddori d''inverno, e quando la pioggia smette, per coerenza, metafora o quel che volete, pure io smetto di precipitare.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...
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