C'è un sospetto di malinconia, un'imboscata, a camminare per le strade vuote il giorno dopo la festa. Sarebbe meglio non restare in giro, partire via, guidare rintronati di musica fino al mare e lì tuffarsi, e lasciare le orecchie sott'acqua, riempirle del suono muto che fanno i pesci, e le onde, e il leviatano vorace, e il Nautilus quando riaffiora. Invece uno si ostina a ricalcare gli stessi passi, tagliare a metà le stesse piazze ora deserte, e mal gliene incoglie. In via del Campanile - là sabato ci siamo fermati la prima volta, come in una laica via crucis; tutto il santo corteo, dico, la testa già in corso Garibaldi e la coda davanti al terziere, a sistemare acconciature e stirar calzamaglie - non c'è più nessuno: dove sono andati, tutti? Un bambino picchia sul suo tamburo di latta e riassume così l'intera baldoria, la sublima nella sua contentezza, e in quei colpi stonati si riafferrano alla memoria l'incanto, le fiaccole, i cavalli che scartano e le bandiere. La incarna quel ragazzino meglio di chiunque, la cerimonia di chiusura. Tra il palazzo del Comune e la Loggia degli Scolopi lo spazio adesso sembra infinito, un prato di ciottoli che ieri era stretto e invisibile, invaso di drappi trecenteschi, piedi impazienti, gambe indolenzite, elmi, cotte, alabarde, stole, strascichi d'ermellino. Un vento leggero, primaverile, corre sui muri, ha dentro un alito d'agosto; la fontana antica, davanti alla vetrina della lotta al cancro, siede alle inferriate gli ultimi turisti: hanno allungato la vacanza per guardare meglio la città, ora che è tornata sobria. Da che mi ricordo, la luce delle otto di sera, a maggio, trasloca Narni su un altro pianeta: è una chiarità leggera, che un po' euforizza l'anima, un po' la intristisce, e anche quest'anno è così. Si mostrava allo stesso modo - aliena - quand'ero ragazzo, quando son diventato marito, quando mi capitò d'esser padre e quando avvenne che fui infelice, per qualche ostinata stagione. Ora che viaggio dentro un tempo più grazioso, non mi faccio scrupoli tuttavia a voltarmi indietro: è il difetto dei narratori, non esser mai a fuoco col presente.
Il primo Natale dopo la grande tenebra è una stagione vicina eppure antica: undici anni or sono. Là dentro decisi che non me ne importava più delle mie canzoni, dei libri che mi avevano spaccato a metà, e che mi sarei abbrutito, se ne fossi stato capace. Gli altri, intorno, continuavano a fare le cose con noncuranza, come se Alessandra fosse uscita a comprare candele e centrotavola e tutti sapevano che sarebbe arrivata in tempo per il cenone. Scartai il regalo che mi fece qualcuno che non ricordo e dentro c'era un libro di viaggi nello spazio: un suggerimento, avrei dovuto cercare mia moglie dappertutto, nell'universo, tranne che su questo pianeta. Poi venne il primo gennaio, poi il mio compleanno, poi marzo - che ho sempre amato, per via della sua schizofrenia - e poi aprile, mese che ci trasformava per due giorni in amanti affamati, al mare, ed era quando non avevamo altri legami al mondo che il nostro. Ci andai lo stesso, al mare, con mia figlia, e commisi l'errore di ra
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