Mi mancava, andare a un concerto. E mi mancava non solo per il concerto in sé ma per il suo contorno, il prima e il dopo, tutta la bellezza dei gesti di preparazione e l'emotività dei commenti a caldo. Andare a un concerto è un fatto culturale che avevo - avevamo - dimenticato. Così quello dell'otto aprile è stato il live più formidabile della mia vita: Roberto Vecchioni ad Assisi. Iniziò tutto mesi fa, sarà stato gennaio. In un negozio di dischi ho scelto i posti con cura, ho pagato con la carta di credito, ho infilato i biglietti in un portadocumenti e una volta a casa li ho messi via, attento a ricordarmi dove, col sospetto che la vita stesse ricominciando a marciare. Questa cosa somiglia alla libertà ritrovata - devo aver pensato, e venerdì, quando ci siamo messi in viaggio, è stato come se gli anni della peste fossero solo un romanzo: una volta che chiudi il libro puoi tornare alla realtà. Bello è stato fare la E45 mentre scendeva la sera, mangiare una cosa al volo in una friggitoria, parcheggiare eccitati in uno sterrato e aspettare l'ora giusta per farsi avanti. Alla spicciolata son cominciate ad arrivare le macchine. Un uomo, uscendo da un bar lì nei pressi, mi ha chiesto che spettacolo fosse. Quando gliel'ho detto ha risposto Ah, io son qui tutti i giorni e non lo sapevo. Chissà se c'è ancora una poltrona libera. Alle otto e venti ci siamo incamminati a piedi verso l'ingresso, green pass controllato e via. Nel foyer tutti sembravano appena rinati, o grati per essere sopravvissuti alla tristezza. Qualcuno scherzava, qualcun altro cercava il gabinetto come fosse la prima volta che cercava un gabinetto in un teatro: con una piccola vergogna a contorno. Tutto insomma era nuovo, ma non nuovo come non fosse mai successo bensì nuovo come qualcosa che una volta c'era e avevamo perso, una riconquista. E alla fine credo che di emozioni così - collettive - si abbia un bisogno estremo, dopo la grande paura che ci siamo dovuti curare ognuno per conto proprio, e che pensavamo ci avrebbe uccisi.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...
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