Allora ragazza, facciamo il punto della situazione, vuoi? Per
cominciare: che ne pensi di come ho gestito la mia vita da quando sei andata
via? Che te ne pare di tutte le case che ho comprato e venduto, degli anelli
che porto, del modo in cui pratico il mestiere di padre? Perché, sai, ogni
tanto è una domanda che rintocca: che ne direbbe mia moglie di questo gran casino?
Guarda quanto sono girovago, come sono inquieto. E la musica? Ti piace la
musica che metto? Il volume è troppo alto, ti dà fastidio, lo so, abbi
pazienza. È che certe volte il silenzio è un esercito nemico: sembra voglia
entrarmi in casa, disporre della mia dispensa, acquartierarsi in salotto,
bruciarmi i libri. E allora mi difendo, lo rintrono di canzoni. Guarda i miei
giorni, che schizzati che sono. La mattina sembro ancora un ragazzo: invento,
immagino, sogno, racconto, e son tutti verbi che si sposano col mio lavoro. Il
pomeriggio invece è memoria inquieta, non solo degli anni ma anche dei giorni:
mi manca il Duemila come rivorrei l'altroieri, così ogni istante compio gesti di
cui domani avrò nostalgia. Ah, una cosa, prima di andare avanti: non far caso
al disordine. Sopra l'acquaio c'è la tazzina da lavare, uscendo di corsa non ho
fatto in tempo. C'è la scopa da passare in cucina. Si gelava stamattina quando
mi sono alzato, nonostante sia Aprile: ho fatto colazione colle maniche del
pigiama tirate sulle dita, ho visto fuori il campo sportivo, era tutto bianco,
come in pieno inverno, mi sono incantato a guardarlo. A scuola, ai miei ragazzi
ho raccontato Kierkegaard: ogni anno sono differenti e da una vita hanno le
stesse facce, tentano gli stessi sotterfugi, ne ho avuto davanti centinaia, lo
stampo è quello. Prima, avevo letto in radio le notizie meno strazianti, poi ho
messo qualche canzone mirabile e ci ho parlato intorno, a braccio, perché a
braccio mi viene meglio. Dimmi una cosa: tu pensi che io stia sprecando la
vita, il talento? O pensi che la vita e il talento che ho siano quelli che
merito? Non hai risposto mai a domande del genere; anche adesso armeresti un
sorriso e diresti Sono felice, il resto vale meno di
niente, e io che cerco la felicità nelle parole mi sentirei in difetto, e
aspettando tua figlia che torna mi addormenterei finalmente zitto, nella casa vuota.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...
Il tuo modo leggero e profondo di raccontare la mancanza, la malinconia struggente che ti afferra in una casa vuota, mi incanta.
RispondiEliminaCome tutte le altre volte, ne sono lieto. Grazie Stefania.
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