Che cosa non è successo da quando vivo in questa casa? Che cosa potrà ancora succedere? Le cose si son sommate alle cose, le stagioni han ballato a passo di Giava, e con loro ho ballato anch'io, solitario e ostinato come Pepe Carvalho sotto la pioggia di Barcellona. Tu non esisti, tu non sei niente, non hai potere, le ho gridato di notte, quando era ancora fatiscente e già più nessuno a parte lei poteva sentirmi. Sì, forse i vicini, ma poi mi son scusato regalando loro i miei libri, a Natale. Qui la solitudine ha in effetti sembianze da romanzo, è tutta da scrivere. E se faccio tanto di ricordare quant'era affollata la mia vita altrove, il ricordo è una sedia elettrica difettosa: mi strazia senza uccidermi. Sono sicuro che un giorno di quarant'anni fa ho alzato gli occhi dalla strada e ho visto questa finestra dietro la quale ora mi nascondo, e ho scorto uno che si nascondeva, e ho pensato Chi sarà mai quel vecchio? Sembra stanco, sembra sconfitto, si è messo di tre quarti per non farsi vedere. C'è un percorso per tutti, dicono, una strada d'universo che è segnata, ma è scura, non si può che intuire, e così pure io - come tanti che conosco - non faccio che mettere i piedi dove capita, sperando di non precipitare. Qualche volta ho pregato, da che sono qua, chiedendo, irriconoscente, la grazia di chi getta la spugna, cosa di cui un poco mi vergogno. Forse avrei dovuto comprar casa in una città senza nome, senza tenerezza, senza il peso esagerato di questo scherzo di tempo che ho nelle rughe, nei capelli bianchi. Ci sono famiglie che hanno l'abitudine di frequentarsi, famiglie allargate, tenute assieme da leggi non scritte, più sacre dei codici. E poi - all'altro capo della corda - ci sono famiglie esplose, dove ognuno è solo e ognuno scola la pasta alla cottura che preferisce, con lo svantaggio però di non condividerla. Tutte e due le varianti, ho vissuto: da ragazzo la prima, ed era soffocante, a volte, festosa e faticosa. Adesso la seconda, facile, leggera, indipendente e implacabilmente triste, specie certe sere che la notte non viene mai.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...
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