Che cosa non è successo da quando vivo in questa casa? Che cosa potrà ancora succedere? Le cose si son sommate alle cose, le stagioni han ballato a passo di Giava, e con loro ho ballato anch'io, solitario e ostinato come Pepe Carvalho sotto la pioggia di Barcellona. Tu non esisti, tu non sei niente, non hai potere, le ho gridato di notte, quando era ancora fatiscente e già più nessuno a parte lei poteva sentirmi. Sì, forse i vicini, ma poi mi son scusato regalando loro i miei libri, a Natale. Qui la solitudine ha in effetti sembianze da romanzo, è tutta da scrivere. E se faccio tanto di ricordare quant'era affollata la mia vita altrove, il ricordo è una sedia elettrica difettosa: mi strazia senza uccidermi. Sono sicuro che un giorno di quarant'anni fa ho alzato gli occhi dalla strada e ho visto questa finestra dietro la quale ora mi nascondo, e ho scorto uno che si nascondeva, e ho pensato Chi sarà mai quel vecchio? Sembra stanco, sembra sconfitto, si è messo di tre quarti per non farsi vedere. C'è un percorso per tutti, dicono, una strada d'universo che è segnata, ma è scura, non si può che intuire, e così pure io - come tanti che conosco - non faccio che mettere i piedi dove capita, sperando di non precipitare. Qualche volta ho pregato, da che sono qua, chiedendo, irriconoscente, la grazia di chi getta la spugna, cosa di cui un poco mi vergogno. Forse avrei dovuto comprar casa in una città senza nome, senza tenerezza, senza il peso esagerato di questo scherzo di tempo che ho nelle rughe, nei capelli bianchi. Ci sono famiglie che hanno l'abitudine di frequentarsi, famiglie allargate, tenute assieme da leggi non scritte, più sacre dei codici. E poi - all'altro capo della corda - ci sono famiglie esplose, dove ognuno è solo e ognuno scola la pasta alla cottura che preferisce, con lo svantaggio però di non condividerla. Tutte e due le varianti, ho vissuto: da ragazzo la prima, ed era soffocante, a volte, festosa e faticosa. Adesso la seconda, facile, leggera, indipendente e implacabilmente triste, specie certe sere che la notte non viene mai.
Il primo Natale dopo la grande tenebra è una stagione vicina eppure antica: undici anni or sono. Là dentro decisi che non me ne importava più delle mie canzoni, dei libri che mi avevano spaccato a metà, e che mi sarei abbrutito, se ne fossi stato capace. Gli altri, intorno, continuavano a fare le cose con noncuranza, come se Alessandra fosse uscita a comprare candele e centrotavola e tutti sapevano che sarebbe arrivata in tempo per il cenone. Scartai il regalo che mi fece qualcuno che non ricordo e dentro c'era un libro di viaggi nello spazio: un suggerimento, avrei dovuto cercare mia moglie dappertutto, nell'universo, tranne che su questo pianeta. Poi venne il primo gennaio, poi il mio compleanno, poi marzo - che ho sempre amato, per via della sua schizofrenia - e poi aprile, mese che ci trasformava per due giorni in amanti affamati, al mare, ed era quando non avevamo altri legami al mondo che il nostro. Ci andai lo stesso, al mare, con mia figlia, e commisi l'errore di ra
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