La scorsa estate mi è capitato di viaggiare da solo, in macchina, di notte, da Carpi fino a casa. Col buio l'autostrada sembra l'oceano, i camion soffiano vapore come le balene, le altre macchine buttano luce allo stesso modo dei pesci di profondità e l'asfalto è più scuro a ogni svincolo: è acqua d'alto mare, inabissata. In capo a un centinaio di chilometri, dopo il caffè dell'autogrill, m'è presa la stessa paura che strinse Thor Heyerdahl in mezzo al Pacifico: non c'erano sponde, non c'era scampo, potevo solo andare avanti fino a impazzire. La esagero un po' per darvi l'idea dell'inquietudine che m'ha ghermito a un certo punto, verso le due del mattino. Così ho acceso la radio, saltabeccato un po' fra le stazioni, finché non ho trovato un insonne come me, dalla voce bella quasi quanto la mia, che non blaterava come un deficiente ma al contrario raccontava sapendo raccontare, con le giuste pause dico, quelle dove s'infila l'immaginazione di chi ascolta e delle parole fa teatro. Il collega sconosciuto parlava di canzoni popolari e canzoni colte, ed era un bel sentire. Un ragionamento che ho spesso fatto pure io, applicandolo ad altre espressioni di vitalità umana: film, quadri, scrittura. In sostanza suggeriva che le canzoni popolari, quelle che tutti conoscono, non sono necessariamente le migliori e che la notorietà non fa la bellezza. Provava poi a dimostrarlo con questo teorema: l'arte più nota è quella facile, comprensibile. Basica - ha usato questo aggettivo. Una canzone popolare comincia e finisce con se stessa, non ha rimandi, non rimbalza echi, non ti allarga gli orizzonti. Ha successo perché la maggior parte di noi tende ad accontentarsi, è poco curiosa di quel che succede altrove, in posti differenti dai cortili dove vive. Una canzone popolare, non costringendoti a nessuna ricerca, neutralizzando la paura del mare aperto e regalando la tranquillità di una vasca da bagno, consegna una piccola felicità compiuta. Una canzone colta - continuava - ti mette alla prova. Ti fa irrequieto, ti costringe al viaggio. Alza il culo dalla poltrona e infila la porta, ascoltatore! - ha esclamato verso la fine, prima di lanciare un pezzo dei Baustelle. Io lì ho avuto la conferma della mia insofferenza alle cose: non sono mai sazio, ho sempre fame e sete, c'è sempre un confine spostato più in là. Ecco perché, se mai dovessi rinascere, forse vorrei rinascere contentabile e pigro.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...
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