Alle sette del mattino l'ambulatorio è già affollato, siamo tutti in fila, in attesa che ci prelevino il sangue. Ogni tanto da una porta esce un infermiere che chiama un numero - la persona con quel numero in mano entra a capo chino dentro un corridoio stretto e lungo, pavimentato di linoleum verdognolo, che termina in un disimpegno dove ci stanno tre seggiole senza schienale. Fuori, noi che siamo in piedi parliamo di malavoglia, e solo per commentare la lentezza delle operazioni, e il freddo che sventaglia dall'ingresso principale. Tutti teniamo in mano la nostra urina. Chi in un cilindro di plastica, chi in un bicchiere graduato, chi in una bottiglina da succo di frutta. Tutti abbiamo avvolto quei contenitori nella carta stagnola, o in un kleenex, o dentro tre o quattro tovaglioli decorati, e li stringiamo al petto, li nascondiamo dietro al giornale, ne abbiamo vergogna. A un certo punto arriva un uomo grande e grosso, uno spaccamontagne, pretende di saltare la fila, dice che deve accompagnare la figlia a scuola, e non porta la mascherina. L'infermiere tenta di bloccarlo, gli fa notare che così, senza protezione, non può entrare, quello inizia a sbraitare: "Basta con questa buffonata, è ora di finirla!". Si riferisce al Covid, alla farsa che a sentir lui ci avrebbero montato attorno. Alla fine si placa, si mette dietro a tutti, brontolando. Il sanitario gli allunga una mascherina pulita, gli ordina di indossarla. Il contrattempo ci ha resi ancor più imbarazzati. È evidente da come stringiamo quei flaconi di urina, da come vorremmo farli sparire, perché quello è tutto ciò per cui ci sentiamo fragili, teoricamente malati - se il laboratorio lo confermerà. È il turno di una signora che zoppica, accompagnata da un badante filippino: deve entrare, tocca a lei. La donna rimprovera il ragazzo, poi gli urla contro "Stupido, stupido mentecatto che non sei altro", perché ha tardato a porgerle il bastone. Quando i due si avviano per il corridoio, i commenti si sprecano: "Ma che vengono qui a fare, se non sanno una parola d'italiano?"; "Ma povera signora, con un ritardato del genere". L'uomo grande e grosso, ringalluzzito, tuona "Avete voluto far entrare tutti? Ecco le conseguenze...", e gli altri stavolta ad annuire, a dargli man forte. Il colosso ha riconquistato la platea. Io vorrei dire tante cose, cose che mi bisticciano in testa per chi deve uscire per prima, cose che si aggrovigliano, e così facendo mi lasciano muto. Di lì a poco chiamano il mio numero, entro, restano dietro di me Maciste e la sua claque. Tutti continuiamo a provare vergogna solo per l'urina che stringiamo in grembo.
Il primo Natale dopo la grande tenebra è una stagione vicina eppure antica: undici anni or sono. Là dentro decisi che non me ne importava più delle mie canzoni, dei libri che mi avevano spaccato a metà, e che mi sarei abbrutito, se ne fossi stato capace. Gli altri, intorno, continuavano a fare le cose con noncuranza, come se Alessandra fosse uscita a comprare candele e centrotavola e tutti sapevano che sarebbe arrivata in tempo per il cenone. Scartai il regalo che mi fece qualcuno che non ricordo e dentro c'era un libro di viaggi nello spazio: un suggerimento, avrei dovuto cercare mia moglie dappertutto, nell'universo, tranne che su questo pianeta. Poi venne il primo gennaio, poi il mio compleanno, poi marzo - che ho sempre amato, per via della sua schizofrenia - e poi aprile, mese che ci trasformava per due giorni in amanti affamati, al mare, ed era quando non avevamo altri legami al mondo che il nostro. Ci andai lo stesso, al mare, con mia figlia, e commisi l'errore di ra
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