Ma te, che hai letto tutti quei libri, a che ti sono serviti? La domanda arriva come un colpo di mannaia mentre devo ancora mettere il caffè sul fuoco, alle sette del mattino di una domenica di freddo trasparente. Mi scrive un tale che non conosco, e poi rincara la dose commentando acidamente un video sui Beatles del mio canale Youtube. Non so come lei faccia a sapere che ho letto un po' di libri - gli rispondo - e comunque le confesso che sono assai di meno di quelli che avrei potuto. Chiudo lì la conversazione - non me ne importa più di tanto - e faccio colazione con le tovagliette natalizie. Poco dopo, lavata la tazzina e messo via il panettone, ripenso a ciò che ho risposto a quel provocatore - ce ne sono, è un mestiere come un altro, solo più stupido perché non ci guadagni un soldo. E a un verbo che mi è uscito al posto di un altro, più ragionevole. Ho scritto Avrei potuto, non Avrei voluto: ci passa tutta la differenza del mondo, come chiunque - tranne quel tapino - può immaginare. Leggere è una possibilità, non un atto di volontà, ci tengo a questa distinzione, ci sono arrivato col tempo. Ancora dopo son tentato di dar soddisfazione alla domanda: a che mi è servito leggere quel (poco) che ho letto? Una risposta che vorrei dare a me stesso - è tanto che la cerco - non certo a quel mestatore, cui però son grato per avermela rammentata. Allora. Di quel che ho letto ho solo memorie pallide, se leggere significa ricordare trame, dialoghi, colpi di scena, all'occorrenza, o a comando. Non mi ricordo chi ama Silvia ne La volpe e le camelie, né se Bazarov muore alla fine di Padri e figli, e neanche se Arturo Bandini riesce davvero a diventare scrittore, in Chiedi alla polvere. Tutte quelle avventure sono scorse sulla mia anima come un fiume nel suo letto - e non è che voglia farla troppo melensa ma è così. Ma se al contrario leggere significa orientarsi nel mondo, beh, quello un poco l'ho imparato. Per cui l'amore, il nichilismo e la scrittura li ho capiti un po' meglio perché li avevo letti nei libri e il loro senso mi è rimasto addosso, dentro, appiccicato all'anima. Ho scordato i gesti ma ho trattenuto il significato che avevano, e quel significato l'ho confrontato con quelli che gli davo io, e ho visto che talora combaciavano. Credo che sia questa, in definitiva, la fantastica opportunità che leggere ci offre. Non solo, banalmente, vivere mille vite ma viverne una sola, la nostra, mille volte, con mille soprassalti diversi, mille attese differenti dell'alba, mille similitudini, sfocature, plagi innocenti, sovrapposizioni impercettibilmente inesatte. E così facendo si ottiene un altro vantaggio: provare a capire la vita singolare da un mucchio di prospettive plurali, meno egocentriche: le vite degli altri. Tutto lavoro che chi non legge - o i gaglioffi che ti odiano a prescindere - probabilmente non sarà mai capace di fare.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...
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