Il sole si bagna nel mare di Corfù, ho diciannove anni, è il 1986. L'albergo ha i muri bianchi, e col blu dello Jonio mi fanno venir voglia di rimanere qui per sempre, di farmi greco, aprire una botteguccia di αμφορείς e campare felice per il resto dei miei giorni. La mia ragazza ha la pelle salata, ha detto Vado a togliermi la sabbia di dosso, è sotto la doccia. Mi lascerà tra due mesi e diciassette giorni, il ventotto di ottobre, per stare con un tale che lei definirà più strutturato, ma in questo momento non ne ho il minimo sospetto, e allora la vita è grandiosa. Sotto la finestra dalle tende gonfie di vento passano i venditori di corbezzoli e si chiamano l'un l'altro con nomi che somigliano a quelli degli eroi omerici ma senza averne la ferocia: ridono, si raccontano barzellette sconce, si danno appuntamento in taverna. Siamo qui con altri due amici, alloggiano tre camere dopo la nostra, un altro uomo e un'altra donna. Siamo all'avventura ma i soldi stanno finendo. La sera ceniamo in un porticciolo, il dehor termina quasi dentro il mare, una transenna di corde divide gli ultimi tavoli dall'acqua, che adesso è scura. Un bicchiere di Lefkada, due, una bottiglia, due, ci fanno incoscienti, sciolgono le lingue. Così apriamo bocca e le diamo fiato, e il vino ci scopre temerari, rompe i freni inibitori, qualcuno si offende, salta fuori una vecchia storia di inganni veniali ma ogni peccato diventa gigantesco, stasera, ogni colpa senza redenzione. Lì per lì sembra niente ma tornati a casa romperò i rapporti con l'altro ragazzo. Non di colpo, no, ma come quella transenna di corde quando il sale l'avrà corrosa: uno sfilaccio per volta, fino a che non resterà niente. Dopo cena giriamo sbronzi per i vicoli, entro in una tovaglieria attirato da una canzone di Theodorakis, chiedo in italiano che musica è, non capisco un'acca di quel che mi rispondono, scoprirò quel nome solo anni dopo. A cinquanta metri dall'albergo l'altra ragazza inciampa e batte la testa sul gradino di una birreria: passeremo la notte al pronto soccorso, e una volta a casa sua madre ci vieterà per due anni di telefonarle. Da quella sera, detesto i capodanno. Perché me la ricordano, anche se erano i primi di agosto. Come si usa a capodanno, in quel viaggio noi quattro facemmo proponimenti che andarono perduti. Di restare assieme, in qualche forma, di restare amici. Davanti al mare greco suonavano sacri come giuramenti. Nessuno li avverò, quei tre non li vedo da una vita. Fine delle illusioni, inizio della realtà.
Il primo Natale dopo la grande tenebra è una stagione vicina eppure antica: undici anni or sono. Là dentro decisi che non me ne importava più delle mie canzoni, dei libri che mi avevano spaccato a metà, e che mi sarei abbrutito, se ne fossi stato capace. Gli altri, intorno, continuavano a fare le cose con noncuranza, come se Alessandra fosse uscita a comprare candele e centrotavola e tutti sapevano che sarebbe arrivata in tempo per il cenone. Scartai il regalo che mi fece qualcuno che non ricordo e dentro c'era un libro di viaggi nello spazio: un suggerimento, avrei dovuto cercare mia moglie dappertutto, nell'universo, tranne che su questo pianeta. Poi venne il primo gennaio, poi il mio compleanno, poi marzo - che ho sempre amato, per via della sua schizofrenia - e poi aprile, mese che ci trasformava per due giorni in amanti affamati, al mare, ed era quando non avevamo altri legami al mondo che il nostro. Ci andai lo stesso, al mare, con mia figlia, e commisi l'errore di ra
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