Mi son svegliato con questa fissa in testa: Devo scrivere del Natale della mia infanzia, ma cosa posso scrivere di quell'epoca lì che non abbia già scritto fino alla noia? Il guaio è che di questi tempi - ogni anno, verso gli ultimi di novembre - mi afferra la nostalgia più spietata di tutte: quella che non posso soddisfare. Per tornare al 1973 mi servirebbe una macchina che non hanno ancora inventato, o un sogno così vivido come non ne ho mai fatti. Né aiuta imitare i preparativi che si facevano allora: comprare gli ingredienti per cento pampepati, ordinare il macinato a grana fina per i cappelletti, controllare che le lucine dell'albero si accendano dopo un anno passato nelle valigie, farsi portare dal facchino con l'ape i quintali di legna necessari a scavallare gennaio. Di cento pampepati se ne sprecherebbero novanta: siamo rimasti in così pochi che potremmo festeggiare il Natale dentro una macchina. E anche di tutto il resto non c'è più la gente che se ne occupava, come un rito solito ma dalle litanie allegre. E allora che mi rimane? Di mettermi in cerca di antiche scene che possano commuovere senza farne vanto, ché la commozione nel mondo dei satiri c'è chi la deride. Quel che voglio raccontare oggi sono le stanze buie - la mia camera, o la sala spenta in fondo alle scale che un giorno vi mostrerò - dove mi mettevo in pausa prima che questo modo di dire diventasse popolare, e in un tempo ignaro di cellulari mi ricaricavo. Ci sgattaiolavo verso le cinque, le sei del pomeriggio, dopo il pranzo folto di parentame e le dieci mani di gioco, coi chicchi di mais a segnare i terni, le cinquine e le tombole - che a casa mia, per decreto di Gino, ambi e quaterne non prevedevano premio. Fuori dalla mischia respiravo, stavo zitto dieci minuti col presepio lampeggiante e la maglia che sapeva d'arrosto e poi risalivo a rubare una scheggia di torrone dalla tovaglia. Quella parentesi d'eremita, misantropa a tratti, mi è rimasta addosso in forma d'abitudine, e ancora adesso, nella festa, scompaio il tempo di un bicchiere, rimando il brindisi, sento da una stanza accanto "Auguri! Auguri! Buon Natale!" e tra le voci d'oggi pare che s'infilino, misteriose, quelle di una volta, a ricomporre il coro del narratore.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...
Commenti
Posta un commento
Grazie per aver commentato il mio post