Ho conosciuto un uomo che fa un mestiere minuzioso, non saprei definirlo in altro modo. A Roma, in una traversa dietro piazza Navona, c'è un bar dove questo signore - che avrà la mia età e agisce con uno scrupolo che forse io non ho mai avuto per i mestieri che ho fatto - misura con una sorta di termometro sottile la temperatura del caffè. Prima che venga servito, inserisce nel caffè già in tazza la punta di quel suo stiletto e in un paio di secondi legge i gradi sul display. Se non sono quelli pretesi dal cliente, lo fa scaldare o raffreddare dal barman quel tanto che basta a renderli perfetti. Indossa dei guanti di lattice e dopo ogni misurazione sterilizza quel suo aggeggino sotto un getto di vapore bollente. Fa tutto a una velocità sorprendente, dovreste vederlo. Nel tempo che io ci ho messo a scrivere queste quattro righe avrebbe potuto compiere quell'operazione una ventina di volte. Si è sparsa la voce, mi raccontava un amico, e c'è sempre la fila. Prima era una moda, una curiosità. Ora è diventata una specie di culto. C'è chi non berrebbe mai un caffè che fosse meno caldo di sessantacinque gradi; chi al contrario lo vuole tiepido, sui quaranta. Dicono tutti che il sapore cambia in base alla temperatura e si accapigliano al banco che è uno spettacolo. E non pensiate che quell'uomo faccia questa manfrina per tutto quel che viene servito là dentro. Ma no, neanche per sogno. Non la fa di certo per il caffè macchiato, per quello lungo, per quello ristretto o per il cappuccino. La fa soltanto per il caffè classico, nella classica tazzina da bar - niente vetro, non rientra nelle sue mansioni. E mi raccomando: non chiedete un caffè biologico, a chilometri zero - ammesso che esistano piantagioni tra il Pantheon e Campo dei Fiori - o complicazioni del genere, che in quei casi lui non è tenuto a darvi retta. In qualche modo, questa specializzazione estrema ha educato la clientela a chiedere un caffè senza aggettivi, il che sembra a molti il sintomo di un'evoluzione umana. A me ha suggerito la centralità del dettaglio, della minuzia appunto, e della sua cura. Forse è meglio dedicarsi anima e cuore a una frazione di bellezza, per tutta la vita, che a un insieme caotico di passioni. Del resto, misurare la febbre al caffè può essere più gratificante che star dietro a mille sogni senza catturarne davvero nessuno.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...

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