A mezzanotte i musicisti escono dal locale per fumare e riprender fiato. Bevono disordinatamente mischiando birra, whisky e vino, parlano del concerto, sono lucidissimi, tireranno tardi mentre io casco dal sonno. Hanno appena finito di suonare, io e mia figlia di mangiare e starli a sentire: dio se son bravi. È la mia vita, questa frequentazione di artisti, il mio destino. Non riesco a star lontano dai posti dove si canta, si spacciano libri, si recita a soggetto: è talmente la mia vita che ne ho fatto un mestiere. Anzi: più d'uno. Vado a far la spesa grazie a De Gregori, cambio la batteria della macchina per buona grazia di Umberto Orsini, passo una settimana al mare per intercessione di Cardarelli. Mi pagano per parlarne in radio e per raccontarli in pubblico, e fortuna che mangio come un uccellino e prenoto sempre la mezza pensione, o il denaro non basterebbe. Ma tant'è, tutto questo trambusto somiglia alla felicità e la felicità è meglio di niente. È successo che un po' di anni fa ho dovuto scegliere, e mia madre che ogni tanto mi diceva Te sei un poeta ci ha visto lungo. Non perché lo sia veramente ma perché dai poeti sono attratto, mannaggia a me. Così facendo, mi tocca badare rigorosamente all'economia familiare ma dentro un'altra professione sarei perduto. Adesso invece mi alzo cantando. E, prima che lo pensiate: no, non sono neanche stonato. Ieri sera per esempio ho cantato a memoria e battuto il tempo sul tavolo con le mani: era una festa e alle feste bisogna partecipare per bene, oppure non ci si va. In posti come ieri trovo l'arte, la politica e la libertà che si sposano, e succede solo in certi ambienti: gente che si veste come le pare, che sta con chi le pare, che non si nasconde, che non ha paura dei bigotti, che ride, discute, si infervora, racconta, brinda, ricorda. Gente che indossa monili, orecchini, bracciali, tautaggi. Che quando il cantante infila Bella ciao dentro una canzone si commuove; e quando ci infila Berlinguer applaude. Sono posti rari, da cercare con ostinazione, dove i proprietari han creato piccole comuni che ogni sera pur cambiando popolo conservano le stesse facce. A un certo punto mi han pure chiesto un parere sulle luci sopra il palco: ho detto blu, il colore della tristezza. Ma consolata dalla musica. Perfino dio, che inevitabilmente è di sinistra e stava là attorno a affogarsi di tequila, sarà rimasto contento della scelta.
Il primo Natale dopo la grande tenebra è una stagione vicina eppure antica: undici anni or sono. Là dentro decisi che non me ne importava più delle mie canzoni, dei libri che mi avevano spaccato a metà, e che mi sarei abbrutito, se ne fossi stato capace. Gli altri, intorno, continuavano a fare le cose con noncuranza, come se Alessandra fosse uscita a comprare candele e centrotavola e tutti sapevano che sarebbe arrivata in tempo per il cenone. Scartai il regalo che mi fece qualcuno che non ricordo e dentro c'era un libro di viaggi nello spazio: un suggerimento, avrei dovuto cercare mia moglie dappertutto, nell'universo, tranne che su questo pianeta. Poi venne il primo gennaio, poi il mio compleanno, poi marzo - che ho sempre amato, per via della sua schizofrenia - e poi aprile, mese che ci trasformava per due giorni in amanti affamati, al mare, ed era quando non avevamo altri legami al mondo che il nostro. Ci andai lo stesso, al mare, con mia figlia, e commisi l'errore di ra
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