Una figura fa capolino la sera, dalla finestra al piano terra di una casa dove ho abitato ragazzo. Si intravede appena dal torace in su, è in ombra, non so chi sia. Sta lì per un po' mentre guardo la televisione, poi se ne va, passato qualche minuto, senza dire niente, senza un gesto. Ogni tanto torno in quella casa e torna anche lui, l'ospite misterioso. Magari viene tutte le sere, ma quando non ci sono trova solo una stanza vuota, un camino spento. Qualche volta mette le mani sulle tempie e si avvicina al vetro, come per guardare meglio. Un po' mi ha fatto paura, le prime volte. Ora mi ci sono abituato, lo aspetto - do per scontato che sia un uomo, ma le cose che diamo per scontate sono le più ingannevoli. È abitudinario, arriva sempre qualche minuto prima delle nove e si trattiene il tempo necessario a non diventar molesto, come avesse una suoneria che lo avverte quando comincia a dar fastidio. Dovremmo averlo tutti un orologio che trilla quando diventiamo irritanti. Una diavoleria giapponese, da polso, che ci lega i passi, ci frena le parole, ci scoraggia i gesti, se quei passi, quelle parole e quei gesti sono inopportuni. Io lo sono stato, inopportuno, in qualche stagione passata, manifestando scioccamente troppo amore, o troppo poco, ma spero, da vecchio, di aver imparato la misura. Spero di aver capito che il modo migliore per andar d'accordo è non insistere mai su nessuna questione, non imporre nessun desiderio. Ecco, il desiderio. È magnifico se è ben spartito - altrimenti diventa una forzatura. Un desiderio è una voglia divisa a metà fra due persone, come due parti uguali di una mela. Io credo che il mio visitatore notturno soddisfi, così facendo, il suo desiderio di osservare e il mio di essere osservato, una cosa che ricorda un paio di guanti smessi in fretta: uno è rovesciato e uno no. Non so perché lui mi osservi, ammesso che osservi me. Magari gli piace la tinteggiatura delle pareti, il macina caffè sopra il tavolo. Vorrebbe chiedermi quale ditta l'ha eseguita, dove l'ho comprato. A me piace che mi osservi - ammesso di nuovo che lo faccia - perché amo il mistero che un vizio del genere alimenta. E un narratore, in attesa di ispirazioni più feroci, va matto per queste fantasie.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...
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