Di tutte le tentazioni spenderecce che mi ritrovo, quella per le candele è la più ricorrente. Compro candele ogni volta che viaggio, e da qualche parte, sotto alla base di metallo, scrivo la data e la città, perché un domani non possa confondermi ad assegnare tenerezze ai posti sbagliati. Poi a casa spero faccia buio in fretta, per accenderle, e sono sempre candele lavorate ad arte, coi fili dorati sulla cera, gli angeli paffuti in rilievo, e se sono infilate in un'urna di ceramica c'è un'apertura a forma di grotta di Betlemme o di porta araba attraverso cui riverbera la fiamma. Certe sere accendo tutte quelle che ho a portata di mano, spengo l'elettricità e sto lì a guardare la bellezza che prende forma. La qual scena assume una piega cimiteriale, secondo un paio di amici sprovvisti di immaginazione, e invece è il contrario: in quel momento ho attorno, invisibili e veri, tutti coloro che sono partiti - chi improvvisamente chi annunciandolo - lasciandomi attonito sopravvissuto. Una vigilia di Natale andò via la corrente, ero ragazzino, e qualcuno trovò candele scompagnate, mozze, sopra le mensole della stanza del camino; un altro - mio nonno, mio padre, chissà - procurò due candelabri e così cenammo a quel modo - eravamo in venti e più - e fu memorabile, e fu la prima volta che la meraviglia mi corteggiò, mi violò, benedetta che sia. Anni dopo, quando mia figlia era piccola, dentro gli ovetti di cioccolata regalavano i personaggi del presepio. Riuscii a trovarli tutti e comprai il palcoscenico di cartone su cui andavano sistemati. Così lo costruimmo io e lei, in un ripiano della libreria, però mancava qualcosa: era un presepio spento e Susi disse: Così è tutto fermo, non vedi? Aveva ereditato un acino dello stesso stupore che mi vestì quando avevo la sua età - cosa di cui mi sentii allo stesso tempo colpevole e grato. Quella notte risolvemmo con una piccola candela rotonda, ridotta a un lumicino per non dar fuoco a tutto il quartiere. Le statuine di plastica sembrava quasi si muovessero ai singhiozzi della vampa morente: l'asino si abbeverava al fiume, il bue sbadigliava, i magi erano in viaggio. La nostra fantasia aveva preso il sopravvento.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...
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