Solo stamattina, alla bella età di anni cinquantaquattro, entrando in libreria mi sono finalmente stupito di quanti libri si pubblichino e quanto sia breve la permanenza delle nuove uscite sugli scaffali. Scriviamo forsennatamente - benché sia la penultima ruota del carro mi ci infilo anch'io tra i dissennati della narrazione - e sgomitiamo tra di noi per un centimetro quadrato in più di spazio in vetrina. Mi son così venute in fantasia un paio di piccole considerazioni che vorrei condividere con voi. La prima è che la scrittura è la forma d'arte più praticata perché erroneamente è ritenuta la più semplice. I pianisti, i pittori, gli scultori, non sono certo numerosi quanto gli scrittori, neanche messi tutti assieme. Un bel po' di persone, pur ammettendo che per praticare altre arti occorra studiare e studiare, non sono dello stesso avviso per la scrittura: quella è un gesto istintivo, una necessità primordiale, basta mettere in fila tre pensieri in una forma decente (cosa che per altro non sempre accade) e il gioco è fatto. Per inciso suggerisco che è proprio su questo equivoco che prosperano le case editrici truffaldine: quelle che estorcono denaro agli autori facendo loro credere di essere dei piccoli Balzac. Si sottostima cioè la necessità di costruzione di una poetica, che è fondamentale per concepire una narrazione - in prosa o in versi fa lo stesso. E una poetica si cresce con gli anni, i tentativi a vuoto e il confronto con gli artisti più in gamba: non è una roba che puoi improvvisare. La seconda considerazione, in parte legata alla prima, è che la scrittura fa a volte balenare agli occhi una visibilità a breve termine, dietro l'angolo, conseguenza che con altre arti è più difficile, e per l'epoca affamata di notorietà-lampo in cui viviamo è indiscutibilmente un bel miraggio. Si vince un concorsino letterario, o si scrive una poesiola sghemba a imitazione di Alda Merini e la si pubblica su un social - dove il merinismo fa più danni delle cavallette - e voilà: tutti poeti. Ne deriva che un difetto marchiano di certi autori - improvvisati, dilettanti o professionisti che siano - è non sapersi disciplinare, essere insofferenti all'attesa. C'avete la fregola, avrebbe detto mio nonno. Come quando da bambini smaniavamo per aprire in anticipo i regali di Natale. Col rischio di non trovarci mai, dentro, quel che desideravamo veramente.
Il primo Natale dopo la grande tenebra è una stagione vicina eppure antica: undici anni or sono. Là dentro decisi che non me ne importava più delle mie canzoni, dei libri che mi avevano spaccato a metà, e che mi sarei abbrutito, se ne fossi stato capace. Gli altri, intorno, continuavano a fare le cose con noncuranza, come se Alessandra fosse uscita a comprare candele e centrotavola e tutti sapevano che sarebbe arrivata in tempo per il cenone. Scartai il regalo che mi fece qualcuno che non ricordo e dentro c'era un libro di viaggi nello spazio: un suggerimento, avrei dovuto cercare mia moglie dappertutto, nell'universo, tranne che su questo pianeta. Poi venne il primo gennaio, poi il mio compleanno, poi marzo - che ho sempre amato, per via della sua schizofrenia - e poi aprile, mese che ci trasformava per due giorni in amanti affamati, al mare, ed era quando non avevamo altri legami al mondo che il nostro. Ci andai lo stesso, al mare, con mia figlia, e commisi l'errore di ra
Commenti
Posta un commento
Grazie per aver commentato il mio post