Appena scatta il rosso il ragazzo al semaforo di via dello Stadio diventa giocoliere, lancia in aria i suoi tre cerchi e li prende al volo. Ha misurato il numero sui secondi che ha a disposizione, e qualche attimo prima che torni il verde sfila tra le auto rimediando piccole monete. Alla fine della questua si sposta di lato e fa un inchino. Davanti al tribunale i bar sono gremiti di avvocati in pausa. Parlano tra loro a voce alta, commentando una sentenza, un rinvio a giudizio. Anche chi come me passa distratto, lunare, non può fare a meno di intuire il gusto un poco cinico che provano a far quel mestiere, da che esiste. In piazza Ridolfi i consulenti finanziari di una banca costruita intorno a me mi corteggiano come volessero violarmi: sodomia triste del denaro. Preferisco i peccati allegri dell'erotismo. Al mercatino che affaccia davanti alle vetrine di Max Mara, azienda che ha un fatturato da un miliardo e mezzo l'anno, gli ambulanti vendono casacche multicolore a nove euro e novanta, mangiando - tra i banchi - panini col burro e le acciughe. Nella testa matta del narratore si mischiano miseria e nobiltà, i salti mortali di chi deve sbarcare il lunario da che è al mondo e l'insolenza di chi definisce gli altri clienti o consumatori. L'impasto che ne esce è materia da romanzo, perché dai contrasti nascono le storie, ma i romanzi sono quanto di più inutile abbia inventato l'essere umano, e quanto di più incontrollabile, magnifico e anarchico. Non cambiano la realtà, non raddrizzano i torti: sono il contrario della pedagogia, della legge. Superfluità e bellezza vanno perciò a braccetto e chi ne scrive è un privilegiato, pur se ha un talento piccino come il mio. Tutte le tiritere, tutte le rappresentazioni che si srotolano davanti ai miei occhi mentre vado a comprare i cachi dalla polpa soda, sono necessarie alla mia sopravvivenza ma sono anche cianfrusaglie, merce di poco valore. E siccome sono mie, mie di Francesco, ho pensato di anagrammarle, smontarle. Così ammettendo, spero che il titolo di questa narrazione suoni meno misterioso.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...
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