Appena scatta il rosso il ragazzo al semaforo di via dello Stadio diventa giocoliere, lancia in aria i suoi tre cerchi e li prende al volo. Ha misurato il numero sui secondi che ha a disposizione, e qualche attimo prima che torni il verde sfila tra le auto rimediando piccole monete. Alla fine della questua si sposta di lato e fa un inchino. Davanti al tribunale i bar sono gremiti di avvocati in pausa. Parlano tra loro a voce alta, commentando una sentenza, un rinvio a giudizio. Anche chi come me passa distratto, lunare, non può fare a meno di intuire il gusto un poco cinico che provano a far quel mestiere, da che esiste. In piazza Ridolfi i consulenti finanziari di una banca costruita intorno a me mi corteggiano come volessero violarmi: sodomia triste del denaro. Preferisco i peccati allegri dell'erotismo. Al mercatino che affaccia davanti alle vetrine di Max Mara, azienda che ha un fatturato da un miliardo e mezzo l'anno, gli ambulanti vendono casacche multicolore a nove euro e novanta, mangiando - tra i banchi - panini col burro e le acciughe. Nella testa matta del narratore si mischiano miseria e nobiltà, i salti mortali di chi deve sbarcare il lunario da che è al mondo e l'insolenza di chi definisce gli altri clienti o consumatori. L'impasto che ne esce è materia da romanzo, perché dai contrasti nascono le storie, ma i romanzi sono quanto di più inutile abbia inventato l'essere umano, e quanto di più incontrollabile, magnifico e anarchico. Non cambiano la realtà, non raddrizzano i torti: sono il contrario della pedagogia, della legge. Superfluità e bellezza vanno perciò a braccetto e chi ne scrive è un privilegiato, pur se ha un talento piccino come il mio. Tutte le tiritere, tutte le rappresentazioni che si srotolano davanti ai miei occhi mentre vado a comprare i cachi dalla polpa soda, sono necessarie alla mia sopravvivenza ma sono anche cianfrusaglie, merce di poco valore. E siccome sono mie, mie di Francesco, ho pensato di anagrammarle, smontarle. Così ammettendo, spero che il titolo di questa narrazione suoni meno misterioso.
Il primo Natale dopo la grande tenebra è una stagione vicina eppure antica: undici anni or sono. Là dentro decisi che non me ne importava più delle mie canzoni, dei libri che mi avevano spaccato a metà, e che mi sarei abbrutito, se ne fossi stato capace. Gli altri, intorno, continuavano a fare le cose con noncuranza, come se Alessandra fosse uscita a comprare candele e centrotavola e tutti sapevano che sarebbe arrivata in tempo per il cenone. Scartai il regalo che mi fece qualcuno che non ricordo e dentro c'era un libro di viaggi nello spazio: un suggerimento, avrei dovuto cercare mia moglie dappertutto, nell'universo, tranne che su questo pianeta. Poi venne il primo gennaio, poi il mio compleanno, poi marzo - che ho sempre amato, per via della sua schizofrenia - e poi aprile, mese che ci trasformava per due giorni in amanti affamati, al mare, ed era quando non avevamo altri legami al mondo che il nostro. Ci andai lo stesso, al mare, con mia figlia, e commisi l'errore di ra
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