Ho il sospetto che uno dei film più importanti degli ultimi venticinque anni sia Magnolia, di Paul Thomas Anderson. L'ho rivisto nel fine settimana, complice il caldo furente che mi ha costretto in casa, e non lo ricordavo tanto definitivo. E nemmeno tanto isterico. Importante, definitivo e isterico: mi piace battezzarlo così, sono caratteri che gli calzano a pennello. Provo a spiegare perché. Parliamo di un film con alcuni difetti - per esempio dura più di tre ore e certi passaggi son allungati come gomma americana - ma anche con vari indiscutibili pregi che non avevo colto del tutto la prima e unica volta che lo vidi, nel 1999. Direi che è un film che parla soprattutto di due ostinazioni, dannatamente attuali: quella del caso, ingestibile per antonomasia, e quella del vizio, che è tutta umana, e dunque tutta una scelta. Andiamo con ordine. Quel film è importante - prima definizione - perché mescola con molta abilità quelle due ostinazioni, le frulla insieme, tanto che non sempre riesci a capire se quel che accade nella storia è fortuito o è la conseguenza del gesto di qualcuno. Ha cioè la rara capacità di intuire la vita e raccontarla per quell'impasto di caos e responsabilità che in definitiva è, senza didascalie e moralismi, ma solo riflettendola. In questo modo un film diventa uno specchio. Da qui deriva il suo essere definitivo, secondo battesimo. Non solo per quel frangente storico, di passaggio tra un millennio e l'altro, ma esemplare per gli uomini di tutte le epoche. Come non ci fosse bisogno di girarne altri per cantare la nostra vita: c'è questo e tanto basta. Uomini che diventano isterici - terzo battesimo - quando sprofondano, quando l'istinto zittisce la ragione, quando tutto quel che fanno - tradire, detestare, vendicarsi, ingannare - prepara l'avvento di un'apocalisse di serie B. A un certo punto, verso la fine, c'è una pioggia di rane. Dal cielo, a migliaia, precipitano sulle teste, si spiaccicano sui parabrezza, rompono i lucernai ed entrano in casa, mandando in tilt i contatori, riempiendo le piscine di Beverly Hills, costringendo i nottambuli a ripararsi sotto le pensiline dei benzinai. Chissà se quello è il modo che ha scelto dio per farcela pagare, una buona volta. Un dio degli stagni, naturalmente: anche lui di seconda categoria, ma pur sempre una spanna più in su degli uomini. Dico solo un'altra cosa: se guardate il film vi troverete tanti sosia del presente, tante mostruose icone. Ed ecco il motivo, alla fine, per cui Magnolia, pur trovandolo grandioso, io non lo amo così visceralmente: è una requisitoria troppo feroce - recitata in coro da un manipoli di attori in stato di grazia - contro un mondo del tutto privo di qualunque speranza.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...
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