A dire che la vita è bella perché finisce, ti guardano male, ti danno dello svitato. Eppure è proprio quella zoppia la sua forza: è come se un difetto diventasse pregio. Ci ragionavo sportivamente stamattina, mentre salivo a Itieli a dar da bere alle piante di Rita e a sfamare i gatti che non sono di nessuno, e quindi si rimpinzano in tutte le case fingendo da paraculi di esser sempre a pancia vuota. Pensavo, nello specifico, alla settimana che viene, zeppa di impegni prima delle ferie: il fatto che mi ci dedichi con la necessaria concentrazione e facendo del mio meglio deriva proprio dalla costante memoria della morte, della fine di tutte le seccature. Non crediate che esageri. Provo a spiegarmi meglio, ragionando per assurdo. Certo che ho desiderato essere eterno, tra le stagioni dipinte a tenerezza. Più di qualche volta. Per esempio quando la sera era tiepida, il vento soffiava le onde dell'Egeo come dentro un aulos e una donna innamorata, bellissima, mi corteggiava. Quella vita spudorata avrebbe dovuto non finire mai, è ho preso dio a male parole, talora, perché invece è frangibile come il vetro di un cellulare, basta un urto e s'incrina. Poi, dopo la rabbia, in capo ai miei anni di maggior senno, ho intuito che quella meraviglia sarebbe stata impossibile s'io fossi stato immortale. Ogni cosa, se fossimo per sempre, sarebbe rinviata a data da destinarsi, e quella data non arriverebbe mai, e saremmo inconcludenti e incapaci. Avremmo in mano tutto il tempo del mondo, perché affrettarsi? Di rimando in rimando, resteremmo immobili, e allora non avremmo rotture di scatole cui far fronte ma neanche gioie sparate dritte in cuore per cui piangere, e se anche le avessimo daremmo loro un valore di princisbecco, tante ce ne sarebbero. Invece è la rarità della bellezza che ci cade in testa a farla preziosa, a farcene gelosi, tanto che al massimo possiamo raccontarla - come sto facendo adesso - ma sottovoce, giurando che non era la nostra, perché nessuno se ne appropri. Trovo fantastico infine che a ogni curva dei giorni ci si possa trovar davanti un muro o un campo fiorito: quest'equilibrio tra disdetta e fortuna fa l'evoluzione, dato che ci costringe ogni volta a ragionare su come affrontare l'ignoto, di qualunque natura sia. È quel che non conosciamo, quel che ci spaventa, ad accorgerci vivi, e a farci leggeri e sentimentali.
Il primo Natale dopo la grande tenebra è una stagione vicina eppure antica: undici anni or sono. Là dentro decisi che non me ne importava più delle mie canzoni, dei libri che mi avevano spaccato a metà, e che mi sarei abbrutito, se ne fossi stato capace. Gli altri, intorno, continuavano a fare le cose con noncuranza, come se Alessandra fosse uscita a comprare candele e centrotavola e tutti sapevano che sarebbe arrivata in tempo per il cenone. Scartai il regalo che mi fece qualcuno che non ricordo e dentro c'era un libro di viaggi nello spazio: un suggerimento, avrei dovuto cercare mia moglie dappertutto, nell'universo, tranne che su questo pianeta. Poi venne il primo gennaio, poi il mio compleanno, poi marzo - che ho sempre amato, per via della sua schizofrenia - e poi aprile, mese che ci trasformava per due giorni in amanti affamati, al mare, ed era quando non avevamo altri legami al mondo che il nostro. Ci andai lo stesso, al mare, con mia figlia, e commisi l'errore di ra
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