A dire che la vita è bella perché finisce, ti guardano male, ti danno dello svitato. Eppure è proprio quella zoppia la sua forza: è come se un difetto diventasse pregio. Ci ragionavo sportivamente stamattina, mentre salivo a Itieli a dar da bere alle piante di Rita e a sfamare i gatti che non sono di nessuno, e quindi si rimpinzano in tutte le case fingendo da paraculi di esser sempre a pancia vuota. Pensavo, nello specifico, alla settimana che viene, zeppa di impegni prima delle ferie: il fatto che mi ci dedichi con la necessaria concentrazione e facendo del mio meglio deriva proprio dalla costante memoria della morte, della fine di tutte le seccature. Non crediate che esageri. Provo a spiegarmi meglio, ragionando per assurdo. Certo che ho desiderato essere eterno, tra le stagioni dipinte a tenerezza. Più di qualche volta. Per esempio quando la sera era tiepida, il vento soffiava le onde dell'Egeo come dentro un aulos e una donna innamorata, bellissima, mi corteggiava. Quella vita spudorata avrebbe dovuto non finire mai, è ho preso dio a male parole, talora, perché invece è frangibile come il vetro di un cellulare, basta un urto e s'incrina. Poi, dopo la rabbia, in capo ai miei anni di maggior senno, ho intuito che quella meraviglia sarebbe stata impossibile s'io fossi stato immortale. Ogni cosa, se fossimo per sempre, sarebbe rinviata a data da destinarsi, e quella data non arriverebbe mai, e saremmo inconcludenti e incapaci. Avremmo in mano tutto il tempo del mondo, perché affrettarsi? Di rimando in rimando, resteremmo immobili, e allora non avremmo rotture di scatole cui far fronte ma neanche gioie sparate dritte in cuore per cui piangere, e se anche le avessimo daremmo loro un valore di princisbecco, tante ce ne sarebbero. Invece è la rarità della bellezza che ci cade in testa a farla preziosa, a farcene gelosi, tanto che al massimo possiamo raccontarla - come sto facendo adesso - ma sottovoce, giurando che non era la nostra, perché nessuno se ne appropri. Trovo fantastico infine che a ogni curva dei giorni ci si possa trovar davanti un muro o un campo fiorito: quest'equilibrio tra disdetta e fortuna fa l'evoluzione, dato che ci costringe ogni volta a ragionare su come affrontare l'ignoto, di qualunque natura sia. È quel che non conosciamo, quel che ci spaventa, ad accorgerci vivi, e a farci leggeri e sentimentali.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...
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