Se mi fossi chiamato Numa o Galeazzo, se mi fossi chiamato Severino, magari avrei facilitato il compito a quelli che a scuola prendono per il culo gli eccentrici e i silenziosi - pregi che a otto anni avevo già - ma può darsi che avrei scansato questo destino da meditabondo - questa sorte da viandante delle solite strade - che mi veste come una giacca su misura. Mi sa che il nome che portiamo scolpisce un po' il carattere, e Francesco Franceschini non poteva che essere un uomo a cui le cose sognate, le vite vissute, tornano addosso, affezionate e violente. Leggete bene il mio nome: la ripetizione, l'eco, sono già in quel battesimo. Eccola allora, la memoria: faccio per cacciarla come un urlo ma quella rimbalza sulle pareti verticali dei palazzi, sulla cresta delle colline, e mi ricasca addosso, e a quel punto sto da capo a dodici. Quando successe la prima volta? Non mi sento di giurarlo in tribunale ma poteva essere un autunno degli anni novanta, - camminando per la via rotta che dal centro di Narni, strozzandosi sotto porta delle Arvolte, ti tenta all'aperta campagna, se hai scarpe comode e nessun appuntamento incombente. Quel giorno - mettiamo che fosse il 20 di ottobre: mi piacciono i 20 di ottobre - mi apparve il fantasma di Gino che reggeva buste della spesa grasse di ogni ben di dio per il giorno della festa. Rividi il tempo in cui abitavamo tutti più o meno vicini e in cui la domenica era sacrilego saltare il pranzo di famiglia, cui seguivano le partite alla radio per gli uomini e i ragionamenti finalmente lontani dalle orecchie maschili per le donne. Gino era lì, a quattro metri da me, e benché fosse soltanto nella mia speranza - che nel condominio dell'anima confina con l'immaginazione, che a sua volta ha però il difetto di ospitare solo desideri irrealizzabili - ero ragionevolmente convinto che un po' di anni prima - ugualmente il venti di ottobre - avesse messo i piedi sugli stessi centimetri quadrati di marciapiede, e che anche la postura faticata che gli vedevo mostrare fosse la medesima, premurosa epperò stanca di contentare le strambe esigenze alimentari di figli e nipoti. Per cui avvenne quel giorno, che mi innamorai dei ricordi. Successe perché li scoprii dolci e spietati, incapaci di mezze misure, e intuii che non sarebbe stato facile parlare agli altri di questa mania, e farsi capire. Quelle stagioni - quando ero certo che tutti fossero immortali - fanno la nostalgia di adesso; certe sere fanno persino lo sconforto; altre, poche a onor del vero, una piccola disperazione. Tutte assieme, mannaggia a loro, la malinconia del sopravvissuto. E per cercare di venirci a patti, con quei sentimenti gelosi, mi aggiro ancora nello stesso teatro, pur se gli attori sono andati via e le luci sono tutte spente.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...
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