Io faccio tutti i giorni gli stessi gesti, gesti che si ripetono, si rassomigliano - per esempio a letto leggo sempre sul fianco sinistro, con la testa sopra un cuscino piegato in due - e poi provo a raccontarli, contando sul fatto che ai lettori non superficiali piacciano memorie graziose e quotidianità. Del resto si scrive perché qualcuno legga, e una volta Antonio Tabucchi disse che scrivere è come gettare in mare un messaggio dentro una bottiglia: prima o poi, dall'altra parte del mondo, la ripescheranno. Non è così importante cioè conoscere di persona chi ci legge anche perché chi conosciamo talora ci fa la guerra. Non ci credete? Eppure succede. Io li chiamo "gli avversari", e sono cosa ben diversa dagli haters, gli odiatori di professione, che risultano quasi sempre dei perfetti sconosciuti - oltre che degli sbalorditivi imbecilli. Gli avversari invece sono persone teoricamente amiche, vicine, con le quali hai avuto in passato - e magari ancora ce l'hai - un qualche tipo di relazione: affettiva, amicale, parentale. A intervalli irregolari - vale a dire quando passa loro per la testa - provano a smontare, irridere, confutare quello che scrivi, entrando a gamba tesa su cose che tu reputi innocenti, tutt'al più scherzose, e che non ambiscono a suscitare tanta cattiveria. Vi faccio qualche esempio: ultimamente alcuni mi hanno impartito lezioni non richeste di marketing editoriale e narrativa commerciale - come si scriverebbe cioè secondo loro un libro di successo. Va da sé: senza averne mai partorito neanche uno. Certi altri han pensato bene di dedicarmi tirate sbrodolanti di politicamente corretto - perché anche nel mondo delle case editrici bisogna non urtare nessuno e mantenere buoni rapporti coi pezzi grossi - e divertenti filippiche su cosa sarebbe più opportuno scrivere per sfondare. Il tutto, non di rado, condito da commenti in cui un po' mi compativano per l'ostinazione ad andare per la mia strada - accidentata che sia e lontana dalle millemila copie vendute - e un po' mi mettevano in guardia sui fallimenti cui sarei andato incontro insistendo a fare di testa mia. Mi preme aggiungere che nove volte e mezza su dieci portando a esempio i propri trionfi raccontano un sacco di balle, gonfiandoli a dismisura come han fatto certi politici coi rimborsi delle spese di viaggio. Ho pertanto il sospetto che siano un disastro da quando sono al mondo, che la loro vita sia piena in superficie e vuota dove conta - dovunque sia che la vita conti - e che non abbiano talento per nessuna delle attività di cui si fingono esperti. Così detestano quello degli altri, perfino quando è trascurabile e piccino come quello che ho io.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...
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