Esco prima di mezzogiorno e torno all'ora di cena, e in quel frattempo casa trattiene il fiato, si riempie di caldo, si avvilisce perché resta sola: ho il sospetto che ogni casa vuota avverta un senso di fallimento esistenziale. Noi crediamo che le case siano solo fondelli e pavimento, una cucina Scavolini, un salotto Chateau d'Ax, un bagno Pozzi Ginori. In realtà quando siamo via è come quando due innamorati stanno lontani, c'è un senso di incompletezza nell'uno e nell'altra: l'uomo senza il proprio rifugio, la casa senza chi nel suo guscio - abitualmente - protegge. Per tutto questo e per gratitudine, io casa mia cerco di onorarla come merita, corteggiarla con un vaso di ciclamini sull'uscio, ingentilirla con tendine che a legarle sembrino un sorriso, farla più giovane con tinte allegre alle pareti. È ciò che si definisce senso di appartenenza: siamo tutti di qualcuno, i più fortunati - quelli che se ne accorgono - anche di qualcosa. Perché non vale solo per le case, ma per tutto ciò che pur avendo un'anima di metallo cemento o plastica ci consola la vita, ci aspetta sobria e fedele alla fine del giorno, e ci rifocilla. Un cellulare, un canale satellitare, una chat con chi sta dall'altra parte del mondo, una Vespa per guardare il tramonto a Santa Marinella, una collezione di posate Priya, la novantesima uscita del modellino della Transiberiana - quella col comignolo che fischia appena all'orizzonte s'annuncia Vladivostok. Io credo che a furia di assecondare la nostra smania di possesso, abbiam dimenticato quanto sia dolce esser posseduti, lasciarsi governare, lasciare che le cose si prendano cura di noi. È il contrario del consumismo, giuro, questa relazione con gli oggetti. Il consumismo ci spinge ad accumulare senza un disegno, una reale necessità. È un istinto compulsivo, tossico. Questa faccenda che dico ci istruisce invece a liberarci del superfluo, e a farci appartenere solamente al necessario. Io per esempio, oltre che a casa mia, appartengo a un videoregistratore ancora funzionante, a un vecchio paio di guanti da giardiniere e alla mia macchina, con cui faccio la libertà ogni volta che posso. E fare la libertà ogni volta che si può - dovete credermi - è un gesto che solo le cose che ci voglion bene ci aiutano a compiere.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...
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