Esco prima di mezzogiorno e torno all'ora di cena, e in quel frattempo casa trattiene il fiato, si riempie di caldo, si avvilisce perché resta sola: ho il sospetto che ogni casa vuota avverta un senso di fallimento esistenziale. Noi crediamo che le case siano solo fondelli e pavimento, una cucina Scavolini, un salotto Chateau d'Ax, un bagno Pozzi Ginori. In realtà quando siamo via è come quando due innamorati stanno lontani, c'è un senso di incompletezza nell'uno e nell'altra: l'uomo senza il proprio rifugio, la casa senza chi nel suo guscio - abitualmente - protegge. Per tutto questo e per gratitudine, io casa mia cerco di onorarla come merita, corteggiarla con un vaso di ciclamini sull'uscio, ingentilirla con tendine che a legarle sembrino un sorriso, farla più giovane con tinte allegre alle pareti. È ciò che si definisce senso di appartenenza: siamo tutti di qualcuno, i più fortunati - quelli che se ne accorgono - anche di qualcosa. Perché non vale solo per le case, ma per tutto ciò che pur avendo un'anima di metallo cemento o plastica ci consola la vita, ci aspetta sobria e fedele alla fine del giorno, e ci rifocilla. Un cellulare, un canale satellitare, una chat con chi sta dall'altra parte del mondo, una Vespa per guardare il tramonto a Santa Marinella, una collezione di posate Priya, la novantesima uscita del modellino della Transiberiana - quella col comignolo che fischia appena all'orizzonte s'annuncia Vladivostok. Io credo che a furia di assecondare la nostra smania di possesso, abbiam dimenticato quanto sia dolce esser posseduti, lasciarsi governare, lasciare che le cose si prendano cura di noi. È il contrario del consumismo, giuro, questa relazione con gli oggetti. Il consumismo ci spinge ad accumulare senza un disegno, una reale necessità. È un istinto compulsivo, tossico. Questa faccenda che dico ci istruisce invece a liberarci del superfluo, e a farci appartenere solamente al necessario. Io per esempio, oltre che a casa mia, appartengo a un videoregistratore ancora funzionante, a un vecchio paio di guanti da giardiniere e alla mia macchina, con cui faccio la libertà ogni volta che posso. E fare la libertà ogni volta che si può - dovete credermi - è un gesto che solo le cose che ci voglion bene ci aiutano a compiere.
Il primo Natale dopo la grande tenebra è una stagione vicina eppure antica: undici anni or sono. Là dentro decisi che non me ne importava più delle mie canzoni, dei libri che mi avevano spaccato a metà, e che mi sarei abbrutito, se ne fossi stato capace. Gli altri, intorno, continuavano a fare le cose con noncuranza, come se Alessandra fosse uscita a comprare candele e centrotavola e tutti sapevano che sarebbe arrivata in tempo per il cenone. Scartai il regalo che mi fece qualcuno che non ricordo e dentro c'era un libro di viaggi nello spazio: un suggerimento, avrei dovuto cercare mia moglie dappertutto, nell'universo, tranne che su questo pianeta. Poi venne il primo gennaio, poi il mio compleanno, poi marzo - che ho sempre amato, per via della sua schizofrenia - e poi aprile, mese che ci trasformava per due giorni in amanti affamati, al mare, ed era quando non avevamo altri legami al mondo che il nostro. Ci andai lo stesso, al mare, con mia figlia, e commisi l'errore di ra
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