Nell'estate del 1984 a Sanremo conobbi Francesco Di Giacomo. Avevo sedici anni e lui trentasette, andavo a comprare un ghiacciolo al bar dello stabilimento balneare e me lo ritrovai lì, barbuto e imponente, a giocare a Pong contro se stesso. Lo riconobbi subito perché già allora avevo cominciato ad ascoltare musica per conto mio e lui era il frontman del Banco da una dozzina d'anni, eppure sembrava che là attorno nessuno se ne meravigliasse. Mi trovai a fissarlo finché si voltò verso di me e mi chiese Sai giocare? Vinsi una partita e lui cinque o sei e alla fine ci sedemmo a un tavolino sulla spiaggia, a bere orzata e succo di fragole. Gli dissi che sapevo chi fosse e lui allargò un sorriso di compiacimento - tenero però, e tutt'altro che presuntuoso. Parlai soprattutto io, lo rimbambii di chiacchiere, e gli confessai che andavo lì tutti i pomeriggi perché verso sera arrivava sempre una ragazzina che era un incanto. Naturalmente non sapevo neanche come si chiamasse. Si avvicinava al jukebox e metteva Jump, dei Van Halen, e tutto il bar cominciava a ballare. Lei picchiettava le dita sopra il vetro, a simulare la batteria, e a me quel gesto m'innamorava. A un certo punto me la piantai, di torturarlo, e Franz attaccò un discorso strano, fuori contesto, come lo avesse preso da una nuvola, come tirasse il filo di un palloncino che non voleva si perdesse sopra il mare. Parlò della stanchezza, del pericolo mortale che porta con sé. Spiegati meglio - trovai il coraggio di dirgli e lui se ne compiacque, e vuotò il sacco. Così, grosso modo, disse: Quando ti capiterà di essere stanco, fregatene. Fregatene, dico sul serio. Non darle ascolto, a quella malnata. Metti una camicia pulita, spendi dei soldi in modo insensato, canta, vai con gli amici, fai un viaggio, il bagno in un fiume. Basta che non le dai corda, o ti paralizza. Io la conosco, e lei conosce me. Mi parla nelle orecchie mentre scrivo una canzone, mi suggerisce di lasciar perdere. Non darle ascolto, né a quella mentale né a quella fisica. Fatti violenza e alza il culo. Poi disse che doveva andare, che aveva il soundcheck e che gli altri lo aspettavano a Ospedaletti, quattro chilometri da lì. Era stanco, in tutta evidenza - del tour, dei contratti, che diavolo ne so - ma non poteva permetterselo. Neanche per sbaglio. Da allora me lo ripeto anch'io, quando sono stanco: non posso permettermelo. Ho fatto mio il suo slogan. Lui se n'è andato sette anni fa: guidava, forse si è sentito male, ha sbandato. Ci son rimasto di sale, pensavo fossero immortali quelli del suo stampo. Però ancora adesso succede che quando sto per capitolare risenta la sua voce da tenore addolcirmi l'anima, passando dalle orecchie. E allora alzo il culo.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...
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