Se tra poco, per avventura, tornassi dove stavo tre ore fa, ecco, sarebbe un casino. Perché tre ore fa sono stato da dio e adesso i tavoli sarebbero vuoti, e il gazebo scomposto, e gli invitati a quella cresima avrebbero già fatto fagotto, tutti, chi in cerca di un Alka-Seltzer chi dell'ombra regale di una quercia. Poco ci posso fare: è la mia sciocca poetica a riportarmi sempre sugli stessi discorsi, e m'inganna: più credo di andare avanti più torno sui miei passi, su quello che mi squinterna - la nostalgia a breve termine, la solitudine dopo che c'è stata buona compagnia, le parole che abbiamo detto e che quando torno sono là, appese al vento, non cadono ancora per terra. Ci stanno echi di tenerezza ovunque vado, purché sia un posto dal quale sia appena partito, neanche da mezza giornata: un teatro all'aperto, una balera dove ho ballato il tango, una chiesa sconsacrata dove han celebrato un matrimonio tra due uomini. Oggi avrei avuto a che fare con la stessa invisibile bestia, se avessi viaggiato tanto da tornare dov'ero, e non è nemmeno un fatto di felicità: è lo stesso se passo dove mi sono annoiato, o dove credevo sarei stato meglio di quanto è successo. In quella trattoria abbellita dopo una vita di rusticità, gettata da una mano sapiente in mezzo a una campagna di confine dalle colline piccole come seni affioranti, ho accumulato altre ore di immortalità, e ormai ne ho un sacco e una sporta, così tante che le dovrò regalare, o a sentirmele raccontare vi verranno a noia. Come magnifica bonus track c'era un cuoco del Mali, oggi, ci siamo fermati a chiacchierare quando ha staccato, saranno state le cinque. Ha ventidue anni, è bello, gentile, sveglio. Tutte qualità che i razzisti non hanno. E a parte questo, mi ha raccontato, infilando tre o quattro messié nella lingua di Narni, che gli hanno sparato. Non qui, tra Calvi e Otricoli, ma nella sua terra, mentre cercava di venir via, non per ammazzarlo ma per deriderlo. Gli hanno sparato in mezzo ai piedi, per farlo correre più veloce, per divertimento. Dice che è successo tre anni fa. Ha lasciato sua madre, in Africa, le telefona un paio di volte al mese, Ci sono guerre di cui non sentirete mai parlare - ha detto. E in quel momento, delle mie povere guerre lamentate, dei piagnucolii della memoria, dei miei futili, letterari ritorni, mi sono un tantino vergognato.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...
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