Un mio amico, anni fa, si mise con una ragazza bellissima, ma aveva paura di non essere alla sua altezza, e che guardandoli insieme la gente pensasse a un disequilibrio. Rimuginava di continuo su questa cosa, ed era infelice. Non che lui fosse brutto, tutt'altro, ma non sapeva alleggerire, ogni questione sciocca diventava un affare di stato, ogni nuvola un temporale. Avevo intuito che a lei quella cupezza veniva a noia e glielo dissi, gli dissi Smettila di fare così, stempera, e lui Di fare come? e io Come fai. Una sera di aprile mi propose di accompagnarlo alla stazione: la sua donna tornava dall'università, la andava a prendere. Quando lei scese dal treno era insieme a un altro: un tipo allampanato, scialbo, che parlando dondolava la testa in modo fastidioso. Si tenevano per mano e lei prima di infilarsi nel sottopassaggio lo baciò. Vedemmo tutta la scena da una decina di metri e a quel punto quello sciocco non trovò niente di meglio da fare che mettersi a piangere. Lì, in mezzo a tutti, mentre i pendolari lo aggiravano e i viaggiatori in senso contrario gli leggevano in faccia quella infantile disperazione, lui cacciò dagli occhi tutto il sale che c'era. Lo portai a casa e non si fece vivo per un paio di settimane, in capo alle quali mi chiamò e andammo a bere una birra. Era più triste ancora, se possibile, e più malinconico. Gli cavai a fatica tre parole ma quando stavamo per andare via divenne loquace, e mi fece un discorso strano. Mi chiese se secondo lui dio si commuoveva, a guardare il dolore degli uomini. E anche le tenerezze, e le sconfitte, i tentativi andati male, e i disastri sentimentali. Dio dovrebbe guardarci soprattutto in certi casi - disse: - quando siamo indifesi, impauriti. E dovrebbe provare un senso di compassione, dovrebbe trovarci buffi e vulnerabili, e meritevoli di protezione. Poi aggiunse che se non provava nessuna emozione, a vederci in difficoltà, dio poteva anche andarsene all'inferno, con tutto il suo coro di anime osannanti. Non lo avevo mai visto così agguerrito, ci voleva il tradimento per tirargli fuori le unghie. Non gli confessai che anch'io speravo che dio sorridesse, a guardarci salutare nostro padre sul letto di morte, o a prendere in braccio nostra figlia sollevandola dalla nursery, contro il parere delle infermiere, e che quei gesti in qualche modo rappresentassero un bonus per quando ci avrebbe giudicati. Ma non ne ero tanto sicuro, e così feci una smorfia come a dire Bah, che sciocchezza, finii la mia birra e rincasammo senza altre inutili filosofie.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...
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