È una domenica mattina di aprile quando mi affaccio dalla finestra della mia camera e vedo la Punto rossa di papà parcheggiata sotto. Ho dormito fino a tardi, cosa inconsueta, e ho sognato treni e capistazione, mia moglie prima che fosse malata, e che le regalavo una rosa in un posto davanti al mare. Il risveglio è stato a strappi, faticoso: tanto denso e profondo era il sonno. Tornare alla realtà, alla sua logica - dopo aver creduto vere le logiche della fantasia - è un lavoro: devo riattaccare i cavi del cervello, è come riemergere da una fossa oceanica. Così a vedere la macchina di Pietro là nel parcheggio mi convinco che mi sia venuto a trovare con il giornale e le paste di Bonaccini. Ora suona, mi dico, ora sale le scale e bussa. Trattengo il respiro, il palazzo resta muto. Forse sta finendo la prima sigaretta della giornata davanti al portone. Finché mi lavo la faccia con l'acqua fredda e ricordo che la macchina l'ho presa io dal suo garage, perché a Susanna serviva la mia, e che mio padre è morto a novembre. Nello stesso periodo ho traslocato ed ora la mia casa dà su certi scalini dell'infanzia che trovo struggenti solo io, a quanto pare. Se vado a ritroso vedo ieri, e poi una settimana fa, e poi un mese e poi una stagione intera. Ieri era sabato e c'era il mercatino rionale: ho comprato una camicia di jeans e un paio di ciabatte che sembrano quelle dei frati, calzini di cotone e un vaso di ciclamini da mettere davanti alla porta. Ho vissuto già quattro mesi qua dentro e sembrano quattro anni per quante cose son successe. Ecografie, risonanze magnetiche, emocromi, La coscienza di Zeno in dvd, un derby stravinto, libri comprati su Amazon, salti a comprar la verdura e Dylan Dog, nuovi racconti scritti, grandi speranze, riappacificazioni e pianti. In sintesi quella che gli sbrigativi - quindi non i poeti e i narratori - chiamano vita. Vita che mi ha reso quieto, leggero. Vagamente felice. Sono il re di un piccolo stato, fossi sulla luna direi che è il mare della tranquillità. E anche quando dispetto e rimpianto covano dentro, faccio in modo che nessuno li veda e me ne vado a spasso con una faccia che è tutta un sorriso.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...
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