Ho un euro soltanto. Posso avere un fiore con un euro soltanto? Il signore del mio sogno di stanotte sembra quasi scusarsi, pronuncia quelle parole a voce stenta, guardando in basso. La fioraia del cimitero si avvicina, sorride e gli indica le gerbere. Ce ne sono di tutti i colori - rosse, gialle, verdoline - e lui ne sceglie una arancio con il bordo bianco che sembra lo abbiano disegnato sopra con un pastello Giotto. Paga il suo obolo, ringrazia timido e si avvia cantando sottovoce una canzone antica verso l'ingresso, varca il cancello di ferro e s'addentra allegro tra le sepolture a campo. Io faccio lo stesso. Compro una gerbera identica alla sua - per combinazione anch'io ho soltanto un euro in tasca - e gli vado dietro, inzaccherandomi gli stivali. Ha piovuto, nella notte, e il terreno è fangoso e smosso, come ci fossero buche di talpe. Il cielo è tutto grigio, a tratti scuro. L'uomo arriva davanti alla tomba di mio padre e curiosamente si ferma. Mi nascondo dietro lo spigolo di una cappella di famiglia, tutta fatta di marmo e tristezza, e lo spio, non visto. Taglia a metà il gambo della gerbera, con un paio di forbicine che trae dalle tasche, e infila il fiore nella vaschetta sotto la foto di papà. Rimane un po' lì, commosso, infreddolito: si stringe nelle spalle, indossa solo una giacca di velluto che lo terrà caldo come può. Si china e raccoglie dei sassi. Mio padre è morto da poco, la lapide non l'hanno ancora montata e al suo posto c'è una specie di lastra di plastica con il nome incollato sopra, a lettere adesive. Pende da una parte, come se la terra lì sotto avesse ceduto, così l'uomo incunea i sassi tra la terra e la lapide finta e la rimette in sesto. A quel punto mi avvicino e dò l'idea che voglia occuparmi di un'altra sepoltura, lì accanto: la tomba di una donna che potrebbe essere mia madre, sopra cui poso il mio fiore uguale, dopo averlo accorciato con le forbicine che stranamente anch'io ho in tasca. Mi accorgo di avere freddo, ho lasciato il cappotto in macchina, sono pure io in maniche di giacca. Quindi da sotto in su guardo in faccia quel signore. Mi somiglia, ha un'aria meno stanca, i capelli più scuri. Però deve avere la mia età, le stessa paura dell'altezza, l'identica vita sghemba e contromano. Gli piacciono i cantautori, mi sa. Magari a lui più Faber che Vecchioni. E il cinema. A lui più Almodovar che Blake Edwards, probabilmente. Ma sono dettagli, lo so. Ciò che non è un dettaglio è che all'improvviso si volta, mi guarda dritto negli occhi ed è come se mi guardassi da solo. Ho pensato che potessimo dividere in due tutto il peso - dice, - così da darti un po' di respiro. Lui non avrebbe nulla in contrario. Poi indica la lapide di plastica, la terra che somiglia a polvere di caffè, la gerbera che svetta tra gli altri fiori insecchiti. Mi lancia un sorriso che finisce per terra, si volta e se ne va. E solo allora mi sveglio, e c'è il sole.
Valerio, avevi ragione, dovevo lasciar andare. Ti ricordi che ne parlavamo? Io trattenevo, aggiustavo, incollavo. Tu dicevi "Sei stato bene con quella ragazza? Basta, non cercarla, non chiamarla". Oppure "Ti manca tuo padre, ne hai nostalgia? No, non darle retta, via, è finita". Dicevi che dovevo conservare la memoria ma senza ogni volta inseguire il passato: io ho sempre pensato che le due cose fossero inseparabili, mi hai aperto gli occhi. Così faccio con le case che ho abitato: non le guardo più le fotografie, che si secchino pure dentro gli armadi. Lasciar correre, lasciare indietro. Un suggerimento sensato, così facendo uno mette a posto il disordine delle stanze, ma si vive meglio in un ambiente in cui tutto è dove deve stare? A questa obiezione facevi spallucce, una finta di corpo - come quando giocavi mezz'ala e io al centro dell'area aspettavo il tuo cross per segnare - e uscivi dal bar. Forse pensavi Che testa di cazzo , ma con tenerezza, perché ma...
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