Oggi ho guardato i miei peccati. Erano tutti in casa, come per una rimpatriata, e ho potuto contarli, ricordare il gusto che provai a commetterli, e il lieve senso di colpa che seguì a ognuno di loro. Hanno tutti un aspetto differente, non ce n'è uno uguale all'altro: il primo è alto e beffardo; un altro piccolino e pingue; un terzo secco come un ramo d'inverno. Li amo tutti, li porto nel cuore, non dovrei ma è così. Ho combattuto le tentazioni che li hanno provocati, ma poco, mi sono lasciato convincere facilmente: quel che promettevano era sempre troppo dolce per non soccombere. E i pentimenti erano appunto leggeri, e recavano in dono una deplorevole euforia che mi spingeva a ignorarli e a continuare il vizio. Che poi: il vizio. Non ho fatto politica, non ho diretto un'azienda - che male posso aver mai compiuto? Ho giocato il destino, quello sì, che mi suggeriva una quiete di vivere insopportata, vagamente funebre. Così di tanto in tanto ho viaggiato fino ai confini del mare, ho scritto per vanità, ho amato due donne contemporaneamente, ho fumato erba, ho pensato a certe amiche in modo sconveniente, ho mandato al diavolo chi avrebbe potuto farmi comodo, ho scelto sempre il piacere e mai l'utilità. È quando scegli l'utilità che il peccato è mortale. Il bello dei peccati miei invece è la loro innocenza, l'innocuità. La mia curiosità, li ha incoraggiati, la smania di sperimentare. Me lo ricordavano, oggi, mentre gli servivo il caffè, con le facce furbe che hanno. Si sono fermati poco: la visita del dottore, diceva mia nonna. Ho avuto però il tempo di confessare che sono loro grato perché mi hanno allargato la vita senza farmi ingrassare, me l'hanno complicata senza incasinarla, e ogni volta che è successo l'ho benedetta. Benedire la propria vita non è una fortuna che cade in testa a tutti, gli ho detto. Annuivano, sorridevano. Sono stati contenti dell'accoglienza, temevano li avrei cacciati di casa. Sono andati via alla spicciolata, grati che li avessi rivisti con piacere, senza un ripensamento che li offendesse. E compiaciuti - come bravi diavoletti - del lavoro svolto.
Il primo Natale dopo la grande tenebra è una stagione vicina eppure antica: undici anni or sono. Là dentro decisi che non me ne importava più delle mie canzoni, dei libri che mi avevano spaccato a metà, e che mi sarei abbrutito, se ne fossi stato capace. Gli altri, intorno, continuavano a fare le cose con noncuranza, come se Alessandra fosse uscita a comprare candele e centrotavola e tutti sapevano che sarebbe arrivata in tempo per il cenone. Scartai il regalo che mi fece qualcuno che non ricordo e dentro c'era un libro di viaggi nello spazio: un suggerimento, avrei dovuto cercare mia moglie dappertutto, nell'universo, tranne che su questo pianeta. Poi venne il primo gennaio, poi il mio compleanno, poi marzo - che ho sempre amato, per via della sua schizofrenia - e poi aprile, mese che ci trasformava per due giorni in amanti affamati, al mare, ed era quando non avevamo altri legami al mondo che il nostro. Ci andai lo stesso, al mare, con mia figlia, e commisi l'errore di ra
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