Oggi ho guardato i miei peccati. Erano tutti in casa, come per una rimpatriata, e ho potuto contarli, ricordare il gusto che provai a commetterli, e il lieve senso di colpa che seguì a ognuno di loro. Hanno tutti un aspetto differente, non ce n'è uno uguale all'altro: il primo è alto e beffardo; un altro piccolino e pingue; un terzo secco come un ramo d'inverno. Li amo tutti, li porto nel cuore, non dovrei ma è così. Ho combattuto le tentazioni che li hanno provocati, ma poco, mi sono lasciato convincere facilmente: quel che promettevano era sempre troppo dolce per non soccombere. E i pentimenti erano appunto leggeri, e recavano in dono una deplorevole euforia che mi spingeva a ignorarli e a continuare il vizio. Che poi: il vizio. Non ho fatto politica, non ho diretto un'azienda - che male posso aver mai compiuto? Ho giocato il destino, quello sì, che mi suggeriva una quiete di vivere insopportata, vagamente funebre. Così di tanto in tanto ho viaggiato fino ai confini del mare, ho scritto per vanità, ho amato due donne contemporaneamente, ho fumato erba, ho pensato a certe amiche in modo sconveniente, ho mandato al diavolo chi avrebbe potuto farmi comodo, ho scelto sempre il piacere e mai l'utilità. È quando scegli l'utilità che il peccato è mortale. Il bello dei peccati miei invece è la loro innocenza, l'innocuità. La mia curiosità, li ha incoraggiati, la smania di sperimentare. Me lo ricordavano, oggi, mentre gli servivo il caffè, con le facce furbe che hanno. Si sono fermati poco: la visita del dottore, diceva mia nonna. Ho avuto però il tempo di confessare che sono loro grato perché mi hanno allargato la vita senza farmi ingrassare, me l'hanno complicata senza incasinarla, e ogni volta che è successo l'ho benedetta. Benedire la propria vita non è una fortuna che cade in testa a tutti, gli ho detto. Annuivano, sorridevano. Sono stati contenti dell'accoglienza, temevano li avrei cacciati di casa. Sono andati via alla spicciolata, grati che li avessi rivisti con piacere, senza un ripensamento che li offendesse. E compiaciuti - come bravi diavoletti - del lavoro svolto.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...
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