L'attimo che passa tra l'ultima finzione dell'attore e l'inchino al pubblico, tra la fine della commedia e il ritorno alla realtà, è un attimo pericoloso. In quell'intercapedine di tempo può infilarsi il sospetto che non valga la pena smettere i panni di scena e che il mondo sia meno attraente della sua rappresentazione. Lì l'artista resterebbe in bilico, ancora sul palco ma già col desiderio del camerino, della cena notturna e dell'albergo scalcinato e se indugiasse ancora finirebbe per non riconoscersi più, non sarebbe alternativamente vita e commedia ma per sempre un impasto delle due cose insieme, un mostruoso innesto. Ci ho pensato, qualche volta, a quell'attimo di impasse dei teatranti, e l'ho ritrovato, in tutta modestia, nella mia vita vagabonda, che divaga tra le colline della giovinezza - quelle attorno a Narni - e gli infiniti ritorni nei luoghi che ama - Tarquinia e le sue trattorie sulla spiaggia, per esempio - e che inevitabilmente sono tutti smontati, decadenti. Questa cerca instancata è il mio limbo: non sono più quello di una volta, quando tutto era intatto e ogni recita era piena di attori amati, e non sono ancora quello che vorrei essere, e così rischio di rimanerci invischiato, nella indeterminatezza. Che però ha i suoi vantaggi: mi permette di scrivere, perché si scrivono solo le cose indefinite, vaghe, e non c'è nessun gusto a farlo di quelle in piena luce. Il bonus supplementare è che la scrittura non disturba nessuno: se scrivo mi legge solo chi mi cerca - e questa, per la discrezione del narratore, è una gran fortuna. Il chiacchierone al contrario è un invadente che nessuno sopporta. Da che mi sento preso in mezzo tra passato e avvenire e vivo questo presente immobile subisco anch'io l'indugio dell'attore: l'unico sistema che conosco per non restarci invischiato è raccontarne più che posso. Spero, così facendo, che lo stallo si spezzi e di poter traslocare nel futuro una volta per tutte.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...
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