Ho camminato la città dal basso all'alto - da dove abito adesso fino alla sommità - sperando di incontrare la primavera. Magari camuffata, se le fosse venuto l'estro di andare in avanscoperta un mese prima della reggenza. Di norma, l'inverno s'imburberisce con niente: se l'avesse riconosciuta avrebbe fatto di un gesto innocente un caso, e avrebbero finito per bisticciare. Ho incrociato ragazze che le somigliavano, per come immagino che possa apparir persona, ma non era lei: tenevano gli occhi bassi e andavano di fretta, serie serie. La primavera sorride, invece. Lo sapeva anche Gino, cinquant'anni fa, mentre passavamo sotto la stessa porta medievale, dalle pietre pesanti: io marmocchio, lui nonno senza cerimonie. Sapeva che la primavera a Narni arriva di soppiatto, e se non ci stai attento ti accoltella il cuore: si traveste, è una maschera di carnevale, si confonde nelle feste in piazza, e poi una volta che esci per la strada - al primo pomeriggio - te la trovi tutta intorno, esplosa. E allegra, giuro, tanto allegra che quella allegria è un contagio, una febbre di cose nuove, e cieli rondineschi, maniche corte e gelati da passeggio. Gino prendeva per via Cardoli, a un certo punto, e io oggi invece no: troppi ricordi insieme fanno male, troppa nostalgia fa più danni del colesterolo. Abitava lì a mezza erta, adesso il portone è sempre chiuso e l'intero palazzo disabitato. Pagherei quel che posso, per entrarci. Una volta, non di più, per salire a due a due i gradoni e affacciarmi dal terrazzo panoramico come un papa nuovo dalla finestra dopo il conclave. Invece pare che non si possa e si debba: è triste e vietato. Le cose morte vanno lasciate stare, dicono i più avveduti, e si fanno di contemporaneità. Beati loro, che si perdono tutto quel che è futile, se tutto quel che è futile è in fondo quel che ci tiene in vita.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...
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