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Vabbè

E se a casa non ci tornassi più? Se uscissi dalla radio e cominciassi a girare per la città finché le scarpe non prendono fuoco e le gambe m'implorano Siediti? Quante mattine son tentato di farlo! Ma poi, niente: compro il pane, un etto di bresaola, un limone da strizzarci sopra e rientro nei ranghi. Andare via, far perdere le mie tracce, è una tentazione ancora spuntata, e invece avrebbe bisogno di un temperamatite d'acciaio. Vabbè. Però girellare per il centro, cogli occhi delle botteghe uno aperto e uno no come tante facce con l'orzaiolo, e poi tagliare il decumano fino a raggiungere la periferia, il passaggio a livello, il deposito dei treni merci, mi allontana dal ritorno e mi avvicina alle nostalgie. Qui in gioventù ne ho seminate e avrei giurato che qualche piantina ne spuntasse, e invece a parte le erbacce di rotaia non c'è niente. Più avanti, addosso al cavalcavia, il marciapiede s'inarca, fa una groppa. Lassù in cima han sistemato due panchine di ferro, lontano dai lampioni. Qui venivamo a baciarci e a toccarci, e a guardare i pendolari tristi incorniciati nei finestrini. E qui finalmente ne trovo, di nostalgie, trovo il freddo di certe sere e la fretta di concludere, ché mi aspettavano a casa. Vado via anche da lì, vado altrove, ricalco altri passi, come per verificare. Verificare che con altri amori, in altre stagioni, succeda lo stesso. L'edicola dalla saracinesca imbrattata, il podologo, la pasticceria stretta e lunga, il negozietto di calze e pigiami, la rosticceria appartenuta a tre o quattro proprietari differenti: tutto torna ma è tutto muto. Niente scampanellio, niente stretta alla pancia, come fosse la prima volta che ci metto piede. E così più in là e più in qua, nel perimetro sbilenco dei passaggi della passione, che era furente e adesso dorme. Non c'è niente da fare: se i posti non parlano, gli amori con cui li hai frequentati valgono poco. Non è una gran trovata ma è l'unica unità di misura che conosco per distinguere l'oro dalla pirite.

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