Il giorno più bello della mia vita non è stato un giorno: è stata una sera. Una di quelle sere che puoi tirarle da tutte le parti, puoi aggrapparti ai bordi e dondolarti ma la pellicola non si stacca e la notte non scende, non c'e verso. Quella volta che dico, il chiarore ci rimase attorno fino alle undici, mezzanotte, come cadesse da un pianeta luminoso e rimbalzasse sul mare, per dilagarci poi nei capelli, negli occhi, nella felicità. Sì, il mare. Eravamo in Puglia, al colmo di una di quelle terrazze ristorante che gravano sulla spiaggia e sembra che da un momento all'altro debbano crollare, con te sopra che inforchi gli spaghetti alle vongole. Viaggiavamo in cinque: tre donne e due uomini. Parlo di un po' di tempo fa: più che adulti eravamo ragazzi. Solo all'apparenza spaiati: stabilimmo che non esistevano rapporti fissi, gelosie e altre controindicazioni umane all'amore libero, e ci appartammo a coppie più di qualche volta, scambiandoci le dame come in una danza. Sono volutamente vago sulle date, i posti e i nomi, perché i genitori di quelle fanciulle sono tutti vivi e vegeti e non vorrei ispirare vendette tardive. E comunque, non è questo il punto. Il punto è che quella sera allungata come un chewingum sulle nostre teste io me la ricordo come la prima sera della mia vita in cui mi dimenticai di dover morire. Mangiammo da re, flirtammo, bevemmo vino, e poi ci incamminammo per le viuzze del centro, dove le botteghe avevano acceso le lanterne sopra le insegne e le bancarelle esponevano libri di Sepulveda e Coelho. A un certo punto rimasi indietro, gli altri girellavano leggeri, in ordine sparso, a guardare le vetrine dei souvenir. Li vidi incantarsi davanti a un bazar di camicie da cui usciva musica greca. In quel momento mi resi conto che tutte le paure erano andate via. Tutte, tutte quelle che potete immaginare, avevan fatto fagotto e m'avevano lasciato là a innamorarmi. Di me stesso, della tentazione che il tempo possa essere infinito, degli amici, della bellezza che avevo sotto il naso. Poi la mattina dopo già erano tornate. Ma ciò che conta è che in quel momento disparvero, e capii che potevano farlo. Sparire, dico, essere umiliate, sconfitte. Fu la prima volta che accadde il miracolo, la prima oasi di smemoratezza. Da allora ne vado in cerca, sui cammelli, per i deserti infocati. Sono rare ma esistono ancora. E ancora mi raccontano del mio destino lieto.
Il primo Natale dopo la grande tenebra è una stagione vicina eppure antica: undici anni or sono. Là dentro decisi che non me ne importava più delle mie canzoni, dei libri che mi avevano spaccato a metà, e che mi sarei abbrutito, se ne fossi stato capace. Gli altri, intorno, continuavano a fare le cose con noncuranza, come se Alessandra fosse uscita a comprare candele e centrotavola e tutti sapevano che sarebbe arrivata in tempo per il cenone. Scartai il regalo che mi fece qualcuno che non ricordo e dentro c'era un libro di viaggi nello spazio: un suggerimento, avrei dovuto cercare mia moglie dappertutto, nell'universo, tranne che su questo pianeta. Poi venne il primo gennaio, poi il mio compleanno, poi marzo - che ho sempre amato, per via della sua schizofrenia - e poi aprile, mese che ci trasformava per due giorni in amanti affamati, al mare, ed era quando non avevamo altri legami al mondo che il nostro. Ci andai lo stesso, al mare, con mia figlia, e commisi l'errore di ra
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