C'è un'epoca d'oro in ogni famiglia e poi comincia la discesa, la decadenza, tutta quella vecchiaia esplosa con cui improvvisamente dobbiamo fare i conti: nei corpi, nel mercante in fiera ingiallito, nel camino spento. Quello è il tempo del dolore annunciato. Papà prima di morire mi ha chiesto aiuto, dopo che per cinquant'anni lo avevo chiesto io a lui, senza darlo a vedere, tentando di non farglielo capire. Abbiamo giocato spesso sul filo dell'equilibrio tra detto e non detto, e sotto la rete non c'era. Per questo - per non precipitare - i silenzi si son mangiati le parole, perché camminare sulla corda fosse meno pericoloso. Quando la morfina spegneva per un'ora il dolore, dormiva un sonno superficiale, e talora mi è capitato di vederlo sorridere. Al risveglio, intorpidito, non del tutto in sé, pronunciava nomi di morti che a sentir lui erano andati a trovarlo - Gastone, Gino, Alessandra - e si meravigliava che non li vedessi anch'io. Magari dio rilascia un permesso speciale, ai defunti, per tornare da questa parte a consolare chi è in fin di vita. E questa insomma è la fine, almeno delle cose apparenti, e la fine spezza le abitudini, tanto che la scrittura mi si è inceppata fino a oggi, quando le ho collegato i morsetti come alla batteria della macchina e con una scintilla l'ho costretta a ripartire. E incanutisce gli oggetti, li mostra di colpo inutili perché sai che c'è chi non li userà più. Il tavolino rettangolare, lo stereo portatile, i dischi di Paolo Conte e le Polacche di Chopin: ecco di che parlo. Le ultime cose che mi chiese di comprargli sono un cellulare da battaglia e un paio di pantofole da camera. Ora stanno là, increduli anche loro di non aver nessuno cui far comodo, e sembra si chiedano Ma allora che ci hanno fabbricato a fare? Così le pantofole le ho messe io, ieri, e ci ho girato un po' per casa, ritrovando i suoi passi e l'impronta del corpo dolente sul divano. Scrivere di un padre è la narrazione più difficile del mondo: tutto sfugge, niente, quasi niente, rimane intrappolato nelle parole. Lascio al sottinteso, a quel che si può intuire e immaginare, il compito di raccontarvi Pietro. Io non sono capace, lo ammetto. Mi arrendo, mi fermo qui. Dove l'ultima cosa scritta - una faccenda di contatori ed elettricità - è per me, da parte sua, e per una volta non viceversa.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...
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