Una volta un amico mi insegnò la morte. Mi mostrò cos'è, al di là di ogni ragionevole dubbio. Solo che io ero distratto dalle ragazze, e giovane, e non gli diedi ascolto: pensavo scherzasse, o esagerasse. Mi disse che stava per morire e che non gliene importava. Eravamo sulla gradinata di uno stadio, proprio come Billy Crystal e Bruno Kirby in Harry ti presento Sally. Al quarantesimo del primo tempo, mentre tiravano un corner, mi guardò e disse Ho un linfoma, mi resta poco da campare. E però lo ammise con una tale noncuranza, con una tale allegria, che appunto credetti mi stesse prendendo per i fondelli. Giorni dopo, in pizzeria con altra gente, tornai sull'argomento, gli chiesi come gli fosse venuto in mente di giocarmi uno scherzo del genere. E chi scherza? - rispose: È tutto vero. Insomma gli avevano diagnosticato quella schifezza in seguito a certi dolori al petto, tanto che se ne andò nel sonno, neanche un mese dopo. In quelle settimane lo trovai affaticato, pallido e allegro. Mi diceva che non era il primo, cui toccasse di morire, e che in fondo gli piaceva l'idea di confrontarsi col mistero. Quando ancora ce la faceva ad andare in bici facemmo una piccola sgambata lungo il Nera e ci sedemmo al tavolino di un bar sul fiume a bere una gazzosa. Tu pensi che gli animali ridano? - mi domandò a quel punto. Gli animali? - ripetei stordito. Tirò fuori una sua teoria stramba secondo cui gli animali non ridono o se ridono non lo danno a vedere. Ridere è una prerogativa umana - insistè, - peccato che creiamo troppe poche occasioni per farlo. Mi piacerebbe ridere a crepapelle una o due volte, prima di partire. Gli ultimi giorni li passò a letto, rintronato di farmaci. Delirava, chiamando sua madre morta e giurando che era accanto al suo letto, bella e luminosa. Non l'avete vista? Non è possibile che non l'abbiate vista: era qui un momento fa - ripeteva con gli occhi persi. La sera in cui morì ero passato a trovarlo: due ore prima ero lì. Dormiva, e sembrava il ragazzo più consapevole del mondo. Il giorno del funerale suo padre mi disse che improvvisamente aveva fatto una gran risata, che era rimbalzata sonora per tutta la casa, e poi era andato via.
Il primo Natale dopo la grande tenebra è una stagione vicina eppure antica: undici anni or sono. Là dentro decisi che non me ne importava più delle mie canzoni, dei libri che mi avevano spaccato a metà, e che mi sarei abbrutito, se ne fossi stato capace. Gli altri, intorno, continuavano a fare le cose con noncuranza, come se Alessandra fosse uscita a comprare candele e centrotavola e tutti sapevano che sarebbe arrivata in tempo per il cenone. Scartai il regalo che mi fece qualcuno che non ricordo e dentro c'era un libro di viaggi nello spazio: un suggerimento, avrei dovuto cercare mia moglie dappertutto, nell'universo, tranne che su questo pianeta. Poi venne il primo gennaio, poi il mio compleanno, poi marzo - che ho sempre amato, per via della sua schizofrenia - e poi aprile, mese che ci trasformava per due giorni in amanti affamati, al mare, ed era quando non avevamo altri legami al mondo che il nostro. Ci andai lo stesso, al mare, con mia figlia, e commisi l'errore di ra
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