La settimana scorsa ho comprato una stufa elettrica su Amazon e ieri me l'hanno portata a casa. Il corriere era una ragazza e aveva un'aria familiare. Quando mi ha detto Non c'è bisogno che firmi, prof: posso farlo io per lei l'ho riconosciuta: era una mia ex allieva. A distanza di sicurezza, le mascherine correttamente indossate, ci siamo fermati a parlare un po'. Prima le informazioni superficiali - la pioggia, il freddo arrivato in anticipo, la necessità delle gomme termiche per le strade di montagna - e poi lei ha preso a ricordare le mie lezioni, e che eravamo proprio giovani: lei una ragazzina, io un professore entusiasta, di primo pelo. Sarà stato vent'anni fa - ho osservato, e lei E chi se lo scorda? Non tanto per le poesie e i romanzi, che mi sono sembrati sempre indigesti, ma per una cosa che una volta le sentii dire, e che con fatica ho messo in pratica. A quel punto mi sono piazzato, tutto orecchi, sull'ultima scala della rampa condominiale. La mia amica si è seduta sul cofano del furgoncino, ha detto di avere appena due minuti di tempo prima di un'altra consegna e che perciò non la interrompessi: è sempre stata una tipa dai modi spicci, ma leale. Pare che in classe, una volta, parlai delle occasioni e dell'attesa. Del fatto cioè che a volte scartiamo le occasioni che arrivano - professionali, sentimentali - perché ne aspettiamo altre migliori. Con il rischio concreto che quelle più gratificanti non si presentino mai, e allora viviamo tutta la vita in un deserto dei Tartari. Buzzati è l'unico scrittore che mi ricordo - ha confessato: - ci aveva preso, con quel ragionamento sull'aspettare e sul rimandare. Risalendo in macchina mi ha raccontato che tutti - la famiglia, il marito - le dicevano che quel lavoro di consegne a domicilio non faceva per lei, che avrebbe dovuto aver pazienza, e contare su un'altra occasione. Ma aveva fatto di testa sua, guadagnava quanto le bastava per non dipendere da nessuno e sostanzialmente era felice. Dovrei forse invecchiare nella speranza di un'eventualità che non arriverà mai? - mi ha domandato. E poi mi ha sorriso, ha detto, come mi conoscesse intimamente: Ciao scrittore, ricordati che aspettare è un po' rinunciare, ed è ridiscesa a valle col suo carico di cose da recapitare.
Il primo Natale dopo la grande tenebra è una stagione vicina eppure antica: undici anni or sono. Là dentro decisi che non me ne importava più delle mie canzoni, dei libri che mi avevano spaccato a metà, e che mi sarei abbrutito, se ne fossi stato capace. Gli altri, intorno, continuavano a fare le cose con noncuranza, come se Alessandra fosse uscita a comprare candele e centrotavola e tutti sapevano che sarebbe arrivata in tempo per il cenone. Scartai il regalo che mi fece qualcuno che non ricordo e dentro c'era un libro di viaggi nello spazio: un suggerimento, avrei dovuto cercare mia moglie dappertutto, nell'universo, tranne che su questo pianeta. Poi venne il primo gennaio, poi il mio compleanno, poi marzo - che ho sempre amato, per via della sua schizofrenia - e poi aprile, mese che ci trasformava per due giorni in amanti affamati, al mare, ed era quando non avevamo altri legami al mondo che il nostro. Ci andai lo stesso, al mare, con mia figlia, e commisi l'errore di ra
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