Non ho mai letto una poesia più bella della bellezza di un uomo. E nemmeno quegli scrittori solenni, che hanno sfiorato l'infinito, che mi hanno accartocciato l'anima come si fa col giornale di ieri, hanno mai scritto cose più belle della vita vera, quella fuori dei libri. Me ne sono convinto oggi, mentre Narni si preparava per la notte e sopra il teatro comunale passava una nuvola rosa, tinta dell'ultima luce. Me ne sono convinto dopo averlo sospettato per anni, dopo essermi ingannato a cercare nei romanzi il senso delle cose quando il senso delle cose è per strada. Le facce, le posture, le macchine che salgono la groppa sotto l'arco del duomo, le lanterne che cigolano inchiodate alle insegne dei ristoranti, gli studenti di criminologia che escono dalla lezione serale, Elio Germano che prende il caffé prima dello spettacolo di domani, e di buon grado si fa un selfie con chi glielo chiede: eccola, la realtà. E dietro di lei ecco l'arte, che la imita, la insegue, la invidia, nientemeno. Perfino il dolore, il deperimento, la vecchiaia, sono compagnie leggere, fanno dolce l'inevitabile e eterno l'attimo, così che gli uomini muoiano solo della morte più trascurabile. Questa grandezza nascosta nei giorni, la lucentezza dei gesti, raccontano una disperazione consolabile, una sconfitta che non è necessariamente la fine. Ho visto negli occhi di una donna malata di cancro questa speranza, la commozione per la maestosità che è stata di certo la sua vita, con quel tirar su i figli da sola, la fierezza dell'onestà, e tutto questo è già per sempre, non ci sono metastasi che tengano, ha vinto lei, è salva. Ero a oncologia, poche ore fa, a visitare un amico, e ne ho incrociato lo sguardo come si incrociano le spade in pedana, e lei mi ha sfidato, è stato come se dicesse Ragazzo, prova a essere più felice di me per quello che ho fatto in tutta la vita e lì ho gettato la spugna: non potrei vincere mai, campassi altri cent'anni. Ci provi la poesia a rifar quello sguardo, ci provi la mia povera scrittura a dire quella piega delle labbra, quel viso messo a dura prova e più perfetto che mai. Non c'è partita: la vita ha un'arte, una maestria, che l'arte con tutte le sue sofisticazioni può solamente ricalcare.
Il primo Natale dopo la grande tenebra è una stagione vicina eppure antica: undici anni or sono. Là dentro decisi che non me ne importava più delle mie canzoni, dei libri che mi avevano spaccato a metà, e che mi sarei abbrutito, se ne fossi stato capace. Gli altri, intorno, continuavano a fare le cose con noncuranza, come se Alessandra fosse uscita a comprare candele e centrotavola e tutti sapevano che sarebbe arrivata in tempo per il cenone. Scartai il regalo che mi fece qualcuno che non ricordo e dentro c'era un libro di viaggi nello spazio: un suggerimento, avrei dovuto cercare mia moglie dappertutto, nell'universo, tranne che su questo pianeta. Poi venne il primo gennaio, poi il mio compleanno, poi marzo - che ho sempre amato, per via della sua schizofrenia - e poi aprile, mese che ci trasformava per due giorni in amanti affamati, al mare, ed era quando non avevamo altri legami al mondo che il nostro. Ci andai lo stesso, al mare, con mia figlia, e commisi l'errore di ra
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