Quando non ne posso più, esco di casa e passo il varco. Non devo fare molta strada, sta appena fuori dell'uscio, un centinaio di metri, piegando a destra oltre i cassonetti della differenziata. Lì il sentiero s'impertica gibboso sotto una volta di rami legati come abbracci di amanti e si perde nel bosco. E mi perdo anch'io, e quel perdermi mi rimette al mondo. A volte, ad aspettarmi con una giberna a tracolla, mi piacerebbe che ci fosse Eugenio: è lui che mi ha mostrato il varco. Lo ha scritto dentro alle sue poesie, e giurava che a passarlo ci si ritrova, ed è come rinascere. Altre volte non cerco nessuno, non voglio nessuno tra i piedi, solo il ruscello che scava la roccia, la famiglia di cinghiali che attraversa il sentiero e le combriccole di uccelli canterini sopra la testa. Con le scarpe da trekking delle bancarelle salgo e svolto a ogni cantone - lì han costruito un pollaio abusivo, lassù han tagliato un albero, ne è rimasto un sedile coi cerchi dell'età - e mi avvicino al cielo, mi alzo, sono un'arma puntata contro dio. A un certo punto, tutte le volte, mi vengono incontro i miei giorni, recenti e remoti. Corrono verso di me come all'uscita dall'asilo i bambini alle gambe delle madri. Mi stringono, non mi lasciano proseguire, ma sono festanti, sperano che io sia lieto, a rivederli. Riconosco il colore di ognuno di loro - il bianco delle notti senza sonno, il blu della felicità - e così divento spietato. Caccio lontano tutti quelli che ho maledetto, trattengo gli altri, li passo in rassegna, Spero di avervi onorato come meritavate, dico. In quel plotoncino ci sono i sorrisi a tradimento di mio padre, la testa di mia figlia che vidi spuntare dal ventre della madre, e perfino circostanze più minute: una canzone commovente come un lacrimogeno, l'ultima estate della mia adolescenza, quel romanzo feroce e tenero di Erri De Luca, la vacanza a Pescasseroli prima del grande buio, il vassoio di paste della domenica, Antichità medievali preparato addosso al termosifone, in quell'inverno severo. Tutto il tempo sta nascosto tra i cespugli, e aspetta che sfili davanti per stringermi la gola. Evviva! Evviva! canta, con la voce di Branduardi, e perfino la malinconia che sempre mi scorta se ne va, la coda tra le gambe, al cospetto di tanta meraviglia.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...
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