Stanotte mi sono svegliato alle tre, brutalmente, come se braccia robuste mi avessero scrollato, come fossi su una branda in caserma e un sergente carogna fosse venuto a cercarmi per il contrappello. Era saltata la corrente e ho avuto paura: nel buio talora mi sento soffocare. Ho cercato d'istinto gli occhiali sopra la sedia che uso da comodino: sto traslocando e un pò di cose le ho portate via. Poi dall'altra parte, sul termosifone, il cellulare. Ho acceso la torcia del telefono e col naso sotto le coperte ho guardato attorno. La poltrona coi vestiti, l'armadio bianco, i vetri con le ditate, la scrivania troppo grande per quella stanza: sembrava tutto in ordine. Tutto dormiva, eccetto me. Dietro la porta d'ingresso c'è il contatore della luce: nonostante la notte fosse quieta e senza temporali era saltato. L'ho fatto ripartire e finalmente li ho visti. Sul tavolo stava un ragazzo intento a studiare, tutto storto, di certo infreddolito, con un libro di grammatica greca davanti e una coperta leggera addosso. Ai fornelli una donna cuoceva una frittata di patate e rosmarino. Un fischio, dalla strada sotto, ha annunciato l'arrivo di una terza persona. Il tempo di far passare lo sbalordimento - un batter d'occhi - e la casa era cambiata: ora sembrava quella dove sono nato, lo stesso lavandino di alluminio, le piastrelle bianco e arancio, il gradino sotto la finestra su cui da bambino costruivo con le scatole di scarpe fort Apache. L'uomo che era in strada ha salito le scale ed è entrato in casa. Era giovane, e giovani gli altri due, tutti e tre assieme non facevano novant'anni. Li vedevo e invece per loro io sembravo invisibile. L'uomo si è lavato le mani, il ragazzo si è tirato in piedi, ha sorriso, ha finito di apparecchiare scansando il libro, e la madre ha diviso la frittata in tre parti, ha preso un pezzo di stracchino dal frigo, una ciotola di olive nere e ha affettato il pane. Hanno mangiato in allegria, raccontando. Il ragazzo diceva Farò e Diventerò e gli adulti annuivano, e alla fine ha sbucciato un'arancia, l'ha divisa in spicchi sopra un piatto, l'ha condita con olio e zucchero e la prendeva con le mani. Avrei voluto dire a tutti loro di non ingannarsi, che la vita sarebbe stata differente da come la immaginavano, e che l'avvenire li avrebbe divorati. Ma mi è mancato il coraggio, e poi non ero sicuro: magari mi sbagliavo. Son tornato a letto sperando che se ne andassero presto, che casa mia di un tempo scomparisse da casa mia di ora e che il futuro di quei tre fosse meglio di quello che mi ricordo che è stato.
Il primo Natale dopo la grande tenebra è una stagione vicina eppure antica: undici anni or sono. Là dentro decisi che non me ne importava più delle mie canzoni, dei libri che mi avevano spaccato a metà, e che mi sarei abbrutito, se ne fossi stato capace. Gli altri, intorno, continuavano a fare le cose con noncuranza, come se Alessandra fosse uscita a comprare candele e centrotavola e tutti sapevano che sarebbe arrivata in tempo per il cenone. Scartai il regalo che mi fece qualcuno che non ricordo e dentro c'era un libro di viaggi nello spazio: un suggerimento, avrei dovuto cercare mia moglie dappertutto, nell'universo, tranne che su questo pianeta. Poi venne il primo gennaio, poi il mio compleanno, poi marzo - che ho sempre amato, per via della sua schizofrenia - e poi aprile, mese che ci trasformava per due giorni in amanti affamati, al mare, ed era quando non avevamo altri legami al mondo che il nostro. Ci andai lo stesso, al mare, con mia figlia, e commisi l'errore di ra
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