La casa che tanti conoscono pur senza esserci mai entrati ha fama di casa abitata anche quando non c'è nessuno. Ci si arriva lavorando di servosterzo, scalando sui tornanti, tirando la seconda finché il motore non guaisce e la salita spiana davanti a un campo, un tratto di bosco rotondo come un anello e una cancellata. Lì c'è Itieli, lì c'è il buen retiro che io racconto da anni ai generosi: coloro che di leggermi non sono ancora stufi. Immagino che ve la figuriate, dopo tutte le sciocchezze che ho scritto, e non è escluso che uno di questi giorni apra le sue porte e ci organizzi una maxi festa. Nel frattempo ci salgo da solo, verso sera, a contare le stelle dalla radura e a rifornire la dispensa. Barattolame, olio extravergine, spaghetti, marmellate, frutta secca, biscotti e caffè: ho quanto basta per affrontare un'improvvisa nevicata, o la tentazione del non ritorno, che mi confinerebbe qui per il tempo del chissà. Apro i battenti sulla notte, che in collina arriva prima, e esco fuori. Dalla loggetta le finestre accese paiono quadri, o quelle feritoie del castello di cartone dietro cui da ragazzini mettevamo una candela. A volte capita che davanti a quella luce passi un'ombra. Non se la guardi, appena sposti gli occhi. Se non hai fantasia la prendi per un ghiribizzo di nuvole, un uccello che sfreccia lasciando un'impronta sul vetro. Ma se sei uno che i guai se li va a cercare, allora ti diverti. Mi è capitato di essere completamente solo, in quella casa. Una o due stagioni fa, settembre come adesso. Cercavo una stampa che mi regalarono certi amici, mi ha preso il sonno, mi sono addormentato che era quasi notte. Al risveglio tutto era grigio - i muri, le coperte, l'armadio - e ho provato la sensazione che ci fosse qualcuno là attorno che non vedevo. Così per gioco mi è venuto da dire, a voce alta: Va bene, allora dimostrami che non è un sogno. Chiunque tu sia, accendi la luce, e in quel momento la lampadina del comodino ha preso a sfrigolare. Sapete quando sta per fulminarsi? Ecco, un friccichio così. Pochi secondi, poi più niente. La conseguenza più logica: la paura, e l'azione più ragionevole: darsela a gambe, non mi hanno nemmeno sfiorato. Sono rimasto lì sul letto ancora un po', in pace. Era come se mi avessero confidato il segreto dei segreti. Alla fine ho spento il telefono, preparato un toast e indossato un maglione. La notte era tiepida e consolatrice. Ho acceso una luce fuori e là in mezzo all'erba ho letto un libro fino al mattino.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...
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