Una sera di due anni fa, sulla spiaggia di Cattolica, un ambulante peruviano volle vendermi a tutti i costi una terracotta raffigurante Xilacutli, una divinità minore degli Incas. La fattura è moderna - disse - ma il simbolo che questa figura di donna rappresenta è universale. Io non l'avevo mai sentita nominare ed ebbi il sospetto che se la fosse inventata lì per lì. Tuttavia il ragazzo aveva modi garbati, e poi uno che è tanto lontano da casa va sempre rispettato e ascoltato. Così per dieci euro comprai la statuetta e lui mi raccontò la storia. Pare che Xilacutli fosse una giovane vedova e che a un certo punto il suo unico figlio si fosse ammalato gravemente. Lei tentò di farlo curare ma non aveva denaro e il medico del villaggio le rifiutò il suo aiuto. L'ansia di Xilacutli divenne disperazione, stavano lei e il bambino nella casa spoglia, sdraiati su un letto di foglie di mais. Finché un giorno alla sua porta si presentò un arciere ben vestito, con monili d'oro al collo e ai polsi, e le disse Eccomi, sono il tuo dolore. Mi hai chiamato? Xilacutli lo fece entrare in casa e gli mostrò il figlio febbricitante. Poi gli disse Ora che ti ho conosciuto dimmi come posso mandarti via. Qui il racconto del mio amico peruviano si interruppe, parve commosso, Scusa signore, disse e io mi intenerii. Bevemmo una birra sul lungomare. Poi ci sedemmo tra le alghe e continuò. L'arciere - disse il ragazzo - rivelò a Xilacutli che col canto poteva addolcire la punta delle sue frecce. Lei allora cantò certe canzoni della sua infanzia, il dolore abbassò gli occhi, parve perdere la baldanza consueta e poco dopo se ne andò. Il figlio di Xilacutli morì la mattina successiva, e la madre gli sopravvisse a lungo. Alla fine del racconto chiesi al narratore se potessi scrivere questa storia, e lui ne fu onorato. Oggi finalmente mi sono deciso: mi aiuta a capire il senso di quello che scrivo e decreta una volta per tutte il motivo primordiale, necessario, della creatività umana.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...
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