Sto in piedi su un terrazzo dalla ringhiera bassa: questo è il mio primo ricordo di Ortigia. Sotto passano i venditori di panelle, i carusi dalla lingua stretta, i lenoni che smontano dopo una notte di amori procacciati. Dalla pasticceria ad altezza strada salgono odori di pistacchio e mandorla, di cannoli di pastafrolla. Eccomi, sono qui fuori a prendere il fresco - rispondo a chi mi chiama dal tinello, poi scendo a comprare un vassoietto di dolci. Torno e i miei abiti sanno di ciambelle fritte e nella luce della finestra, che dilaga sul pavimento e taglia la stanza in due metà, aspetto che mi vengano a prendere per andare a Catania. Alla Feltrinelli tra qualche ora racconterò un'altra volta, per divertimento, le avventure che stanno dentro l'Apocalisse in pantofole. È il 2010, ho 43 anni e una discreta scorta di presagi cattivi in testa. Quel viaggio in Sicilia fu come salire sulla macchina del tempo. Una notte sognai di essere tornato indietro di vent'anni e attorno a me c'erano tutti quelli che sarebbero morti e tutti quelli che senza morire sarebbero scomparsi dalla mia vita. Avevo in memoria tutto quello che sarebbe successo e nel sogno fui tentato di seguire un'altra strada, dribblare il dolore, dire a chi amavo di starci attento con le sigarette, e controllare la pressione. Prima che decidessi se restare in quella vita o cambiarla, mi svegliavo ed era tutto uguale a prima: la mia scelta era chiara. La notte successiva sognai invece di essere andato avanti di dieci anni, e la mutazione era vertiginosa. Tutta un'altra visione della realtà, era come se fossi riuscito a spalancare una stanza e guardarci dentro quando prima spiavo le cose dal buco della serratura. Mi piaceva di più, questa seconda occasione. Mi piacevano le responsabilità e l'ansia che dava, perché voleva dire che era buona, che era quella giusta, e che non dovevo sprecarla. Così adesso sto vivendo, eccomi: sono tornato in diretta. La stagione presente ha pretese nitide, è impegnativa. È una montagna che va scalata senza guardare in basso, senza timore. Le cose da fare van fatte, e non parlo solo di me, e all'inferno le esitazioni. Quando la vita è tutta pianura non fai fatica, ma ti diverti un casino di meno.
Il primo Natale dopo la grande tenebra è una stagione vicina eppure antica: undici anni or sono. Là dentro decisi che non me ne importava più delle mie canzoni, dei libri che mi avevano spaccato a metà, e che mi sarei abbrutito, se ne fossi stato capace. Gli altri, intorno, continuavano a fare le cose con noncuranza, come se Alessandra fosse uscita a comprare candele e centrotavola e tutti sapevano che sarebbe arrivata in tempo per il cenone. Scartai il regalo che mi fece qualcuno che non ricordo e dentro c'era un libro di viaggi nello spazio: un suggerimento, avrei dovuto cercare mia moglie dappertutto, nell'universo, tranne che su questo pianeta. Poi venne il primo gennaio, poi il mio compleanno, poi marzo - che ho sempre amato, per via della sua schizofrenia - e poi aprile, mese che ci trasformava per due giorni in amanti affamati, al mare, ed era quando non avevamo altri legami al mondo che il nostro. Ci andai lo stesso, al mare, con mia figlia, e commisi l'errore di ra
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