Abbandoniamoci un po' a questa malinconia. Si annuncia un'altra mutazione, si allestisce un nuovo quartier generale, si trasloca per vivere meglio, in pieno sole e nell'unica città possibile, quella che conserva intatta buona parte della memoria. Però prima dedichiamoci alla tenerezza. Perché ogni distacco che si rispetti è lento, è solenne, e la separazione è in realtà uno sfilacciarsi, non un taglio netto. Quattro anni in collina, sedici stagioni, tempi farciti di stravolgimenti che in comune hanno lo stesso palco: questo soggiorno buio, questa cucina allegra che dà su un terrazzo quadrato da dove nelle notti d'inverno ho visto i satelliti attraversare il cielo. Ho scritto tanto dentro questo posto che sto per lasciare, ho amato e ho avuto paura, mangiato da solo e mangiato in compagnia, lavato più spesso i pavimenti che i vetri, ho bevuto troppo e poi mi è venuto da ridere, ho letto L'isola di Arturo e Cecità, ho risolto cruciverba senza schema, ho scoperto di avere l'asma e una domenica, alle due del mattino, ho maledetto il mondo per un mal di denti feroce. Son partito da qui per arrivare in Croazia e prima ancora a Napoli, e a ogni ritorno la casa che non ho mai amato mi aspettava fedele. Tutto era in ordine, come l'avevo lasciato: i dischi in vinile autografati dai cantanti, i cofanetti di Happy Days, l'orto da sfoltire. Qui ho scoperto quel che già sapevo: il segreto più grande di chi amo. Ero già qui quando ripresi a insegnare, qui c'è un parcheggio tra gli alberi dove aspettavo Susanna che tornava da scuola, e qui poi si è diplomata e ha preso la patente. Le sere d'inverno e primavera, con una coperta in due su un divano scomodo, mi son goduto la poesia rude di certi polizieschi anni settanta e le vittorie nelle finali di coppa, ed era la felicità perfetta. Per questo non posso rinnegare del tutto la scelta di venirci a vivere. Credevo sarebbe stato più lungo, il soggiorno, più facile l'ambientamento. Però certe fotografie sono incancellabili: la mattina della domenica, che salgo il sentiero che porta a un ovile col caffè nella pancia, e penso a una storia nuova da scrivere. L'edicoletta in paese, che ha l'odore della tabaccheria dei miei. I giri attorno al parco, col giornale sportivo in mano in cerca di una panchina libera. La prima colazione al bar quando non ci avevano ancora attaccato il gas. I miei cinquant'anni festeggiati qui. E la salita per arrivare davanti alla porta, quell'erta che spezza il fiato, e il giro lungo nel bosco per smaltire i pranzi delle feste. La mia vita, come quella di tutti, è fatta di epoche che finiscono, di epoche che ricominciano. Tante volte uno pensa che l'esistenza sia vuota. Invece succedono talmente tante meraviglie che basta voltarsi un attimo per accorgersene. Una miriade di gesti che se non hai l'accortezza di scriverli, è come se davvero non fossero mai accaduti.
Il primo Natale dopo la grande tenebra è una stagione vicina eppure antica: undici anni or sono. Là dentro decisi che non me ne importava più delle mie canzoni, dei libri che mi avevano spaccato a metà, e che mi sarei abbrutito, se ne fossi stato capace. Gli altri, intorno, continuavano a fare le cose con noncuranza, come se Alessandra fosse uscita a comprare candele e centrotavola e tutti sapevano che sarebbe arrivata in tempo per il cenone. Scartai il regalo che mi fece qualcuno che non ricordo e dentro c'era un libro di viaggi nello spazio: un suggerimento, avrei dovuto cercare mia moglie dappertutto, nell'universo, tranne che su questo pianeta. Poi venne il primo gennaio, poi il mio compleanno, poi marzo - che ho sempre amato, per via della sua schizofrenia - e poi aprile, mese che ci trasformava per due giorni in amanti affamati, al mare, ed era quando non avevamo altri legami al mondo che il nostro. Ci andai lo stesso, al mare, con mia figlia, e commisi l'errore di ra
Commenti
Posta un commento
Grazie per aver commentato il mio post