Compro una bustina di tabacco, cartine Rizla e zolfanelli e viaggio da solo per la campagna, a corteggiare la malinconia. Le poche volte che fumo mi piace farlo senza dar noia a nessuno, così cerco una roccia in un sentiero, una panchina in un bosco, su cui posso sedermi e far finta di avere il vizio. Che in realtà non ho, anche se ho sempre pensato che i previdenti un qualche difetto debbano pur coltivarlo, per opporlo culturalmente ai salutisti ad oltranza, agli ipocondriaci da manicomio. Porto con me Lettera di una sconosciuta, di Stefan Zweig, perché è tascabile e perché ha solo settanta pagine, così lo finisco tutto in una volta e non devo tenere a memoria la faccenda. La mia memoria zoppica, negli ultimi tempi. O meglio: si è fatta selettiva, conserva ciò che le fa comodo, ciò che le piace, il resto lo cancella. Per cui scelgo sempre più volentieri gesti che cominciano e finiscono in un pomeriggio, cosa che mi permette di andare a letto con la soddisfazione delle piccole imprese compiute. Sotto un carpino abitato da famigliole di passeri rifletto sul suicidio, sulle motivazioni che ipoteticamente potrebbero tentarmi. Non trovo scuse più attendibili di quelle perfettamente stupide: cosa c'è di meglio che togliersi la vita per ragioni inconsistenti? Son capaci tutti ad ammazzarsi per amore e malattia. Perdere uno scudetto per un punto, invece, o sfiorare un premio letterario, sono cose talmente insignificanti che meriterebbero quella soluzione estrema. Per stanchezza, dispetto, e per lasciare tutti quelli che restano a digerire lo stupore. La magnificenza della resa è un altro argomento a favore. Arrendersi: che intraprendenza che bisogna avere ad arrendersi! Alzare le mani davanti alla vita armata, schierata coi suoi eserciti e i suoi lanciafiamme, che ficata deve essere! L'eroismo capovolto mi ha sempre affascinato per via che dimostra la stupidità dell'esistenza, la goffaggine dei sentimenti che crediamo nobili. Tuttavia non sono abbastanza coerente, abbastanza valoroso, per andare fino in fondo. Non conto di finire sui libri di letteratura, né per la bravura né per essermi fatto saltare le cervella, e allora rimpiango, con il poeta, di non essere stato almeno un terzino dell'Atalanta. Che di questi tempi poteva anche comportare una condizione atletica di tutto rispetto.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...
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