Io sono padre e madre assieme, come Princesa è pecora e vacca in quella canzone di Faber, e come lei mi vorrei far pagare per tutto il lavoro sfiancante che faccio, per quell'andirivieni sotto i portici dei supermercati, per l'ansia che si mangia i contorni della sera e quando la notte arriva è tutta inchiostro, è tutta una battaglia contro la paura di un accidente in agguato. Lavoro ventiquattr'ore al giorno tutti i giorni da diciannove anni senza nemmeno un rimborso spese, interpreto due parti su un palcoscenico sconnesso, sono premuroso e brusco, risoluto e tenero, vorrei avere tutto sotto controllo, tanto che non disprezzerei che mi nominassero amministratore delegato dell'azienda. Perché quello è: un'azienda fatta e finita. Purtroppo senza fini né speranze di lucro. Gestire un figlio: altro che gestire il budget, giocare in borsa, diversificare gli investimenti. Gestire un figlio è a vita, e capisco chi non ne ha e non ne vuole. Ogni silenzio è un lascito di sospetti: perché oggi è così? Che gli è preso? Ogni malumore una corsa al parco giochi di papà, che non ha voglia e se la deve far venire, e deve trovare le battute giuste, e lavorare di leggerezza e ironia. Tutto gratis, scusate se lo ripeto. Cosa che a una certa, rompe un po'. Per cui ecco che pensavo: un salario. Ma non fisso: a prestazione. Ogni risata suscitata, dieci euro. Ogni pomeriggio al cinema, venti. Ogni pomeriggio al cinema con te - genitore - che hai l'influenza, trenta e una scatola di tachipirina. Ogni rientro notturno un po' alticcio, se non perdi le staffe te che stai in pigiama a guardare la strada, quaranta. Cinquanta se gli fai capire che alzare il gomito ogni tanto lo fanno tutti ma se diventa un'abitudine è un casino. Insomma, parlo di un riconoscimento tangibile. Di un ringraziamento. Il bonus coltura. Con la O. Non sono forse piante coltivate i nostri figli? E allora lo battezzerei così. Dovrebbero darci un libretto dove segnare le nostre imprese, e a ogni buona azione verso le creature, ecco, ci spetterebbe un bonifico. Mica per arricchirsi, mica per quello. Per tirar su due lire mentre svolgiamo il compito più difficile del mondo.
Il primo Natale dopo la grande tenebra è una stagione vicina eppure antica: undici anni or sono. Là dentro decisi che non me ne importava più delle mie canzoni, dei libri che mi avevano spaccato a metà, e che mi sarei abbrutito, se ne fossi stato capace. Gli altri, intorno, continuavano a fare le cose con noncuranza, come se Alessandra fosse uscita a comprare candele e centrotavola e tutti sapevano che sarebbe arrivata in tempo per il cenone. Scartai il regalo che mi fece qualcuno che non ricordo e dentro c'era un libro di viaggi nello spazio: un suggerimento, avrei dovuto cercare mia moglie dappertutto, nell'universo, tranne che su questo pianeta. Poi venne il primo gennaio, poi il mio compleanno, poi marzo - che ho sempre amato, per via della sua schizofrenia - e poi aprile, mese che ci trasformava per due giorni in amanti affamati, al mare, ed era quando non avevamo altri legami al mondo che il nostro. Ci andai lo stesso, al mare, con mia figlia, e commisi l'errore di ra
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